“Arance e Martello”: com’era il PD e come dovrebbe tornare ad essere

Forse a causa di un buco nel palinsesto o forse, per una volta, per merito di una felice scelta editoriale, sia pur a mezzanotte, va dato atto a Raitre di aver trasmesso un piccolo gioiello.

È andato, infatti, in onda “Arance e martello” di Diego Bianchi, in arte Zoro, popolare emblema della comicità romana e di sinistra: un film a metà fra la narrazione pura e la docu-fiction, in cui si racconta la vicenda grottesca del mercato di via Orvieto, situato nel quartiere popolare e storicamente rosso di San Giovanni, a rischio chiusura a causa di un’ordinanza dell’allora sindaco Alemanno e i cui commercianti, per disperazione, nella canicola di una Roma sfiancata dal caldo e dalla disillusione, si rivolgono alla sezione locale del PD, con l’auspicio che almeno i “compagni” si prendano a cuore le loro sorti. 

Una sezione, quella descritta da Zoro, che incarna alla perfezione il PD e l’Italia di allora: siamo, infatti, nell’estate del 2011, a pochi mesi dalla caduta del governo Berlusconi e dall’avvento di Monti, e il PD è ancora quello di Bersani, con i suoi miti, i suoi riti e i suoi circoli che discutono in maniera estenuante, anche quando a confrontarsi sono una decina o poco più di persone e, nonostante questo, riescono nell’impresa di produrre almeno tre linee politiche in contrasto fra loro. 

Un partito in affanno e privo di una linea chiara, dunque, stretto fra il peso della sua storia quasi secolare, con le pareti della sezione ancora ricche di quadri raffiguranti Gramsci, Togliatti, Berlinguer, lo stesso Bersani e tutte le figure più eminenti della sinistra italiana, e la necessità di entrare nella modernità, di cambiare secolo senza mutare, come poi purtroppo è invece accaduto, la propria ragion d’essere, la propria base e il proprio orizzonte di valori; insomma, un partito chiamato a fare i conti con un passaggio epocale e, purtroppo, assai poco attrezzato, a livello culturale, per compiere una simile impresa. 

Tuttavia, al netto dei suoi limiti, delle sue pecche, della sua costante indecisione, delle sue esasperanti correnti e di tutti gli ingredienti deleteri che hanno portato poi all’ascesa del renzismo, vissuto, almeno inizialmente, come una sorta di anno zero, di liberazione e di rinascita, prima di rivelarsi per ciò che era ed è realmente, al netto di tutto questo, dalla bella pellicola di Zoro si evince anche che quel PD era, quanto meno, un grande partito popolare, magari confusionario e pasticcione ma realmente radicato sul territorio. 

Perché le compagne e i compagni che montavano i banchetti con qualunque tempo, che scendevano nelle strade, nelle piazze e nei mercati a raccogliere le firme per chiedere le dimissioni di Berlusconi, pur sapendo benissimo che non si sarebbe dimesso e che quello era solo un modo per dare un segnale, per unirsi e per sentirsi una comunità coesa in uno dei momenti più difficili nella storia del nostro Paese, quell’universo di ideali e di speranze, con i suoi sognatori e i suoi utopisti illusi, le sue attese e le sue piccole e, tutto sommato, accettabili ambizioni personali, quell’universo ritratto magnificamente da Zoro c’era davvero. Io l’ho vissuti quei giorni, me li ricordo e ricordo bene gli esami universitari preparati in treno o in autobus mentre correvo da un’iniziativa all’altra, sullo sfondo di mesi cruciali per il nostro futuro, cercando di partecipare a tutte le manifestazioni possibili e di fare fronte comune con quella società civile e quella vasta galassia all’infuori di noi senza la quale la sinistra e il PD, semplicemente, non esistono. 

Me li ricordo bene quei banchetti, lo scetticismo della gente che firmava ma poi ti chiedeva più impegno per mandare a casa l’ex Cavaliere o si riservava di firmare più in là perché già all’epoca si interrogava sul senso di un partito troppo diviso, troppo balcanizzato, con all’interno una miriade di visioni e una palese incapacità, al netto dei meriti e delle qualità di Bersani, di giungere ad una sintesi accettabile. 

Eppure, quel partito sgangherato, costretto a ricorrere alle primarie anche per decidere sulle sorti di un mercato rionale, diviso fra chi le voleva aperte a tutti e chi credeva che fosse meglio riservarle ai soli iscritti, fra chi propendeva per la conservazione in blocco dell’esistente, senza rendersi conto di quanto fosse iniquo e di quanto fosse anacronistica questa posizione, e chi, invece, sognava un cambiamento rivelatosi poi conservazione allo stato puro e deriva verso l’annullamento di un’identità comunque rispettabile, quel partito, dannazione, era un partito. E c’era sul territorio e si mobilitava e apriva le sezioni e si batteva e ci provava e qualche risultato lo portava pure a casa, prima di suicidarsi con il sostegno incondizionato a Monti su pressione del prode Napolitano, da cui derivarono il varo della legge Fornero, l’ascesa di Grillo, la sua avanzata dilagante, l’esito del voto del 2013 e tutto ciò che ormai sapete a memoria. 

Quel partito era vivo, presente nel cuore pulsante della società e il film di Diego Bianchi ce lo restituisce, intatto, nella sua poetica caoticità, con l’arrivo di nuovi iscritti e la circospezione guardinga dei vecchi leoni, con il suo dibattito snervante, i suoi scontri con i fascisti e, talvolta, anche con le forze dell’ordine e addirittura con la riproposizione del Pasolini dei tempi di Valle Giulia e del suo schierarsi dalla parte dei poliziotti, a suo dire, e forse non del tutto a torto, i veri proletari di quella lontana stagione. 

E il finale del film di Zoro, nella sua profonda amarezza, ti fa venir quasi voglia di andarla a riprendere quella dannata tessera, di tornare a discutere con quel pescivendolo che ieri votava a destra e oggi, probabilmente, vota Movimento 5 Stelle e di manifestargli un minimo di solidarietà, chiedendo scusa per gli errori commessi, cospargendoti il capo di cenere e cominciando a fare anche i suoi interessi e quelli di tutti coloro che in questo quinquennio tragico abbiamo drammaticamente trascurato. 

Un film su Roma e sull’Italia, su una sinistra che profuma ancora di popolo e di strada, di passione e di entusiasmo, finanche ingenuo nella sua metaforica grandezza, ironico e triste al tempo stesso, capace di parlare di noi come eravamo e di come potremmo tornare ad essere, di ciò che avrebbe potuto essere e purtroppo non è stato, anzi è stato l’opposto. Un film per ritornare ad essere qualcosa nell’anno che verrà.

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