Capitalismo ultimo atto. E fra le macerie fumanti c’è chi vuole un Tea Party italiano

Il capitalismo finanziario decantato dalla destra sta portando l’Occidente al disastro. Eppure c’è chi addebita ancora tutte le colpe allo statalismo imperante e alle sue regole. Un caso di cecità o di interessato coinvolgimento?

ROMA – Secondo Voltaire lo stupido si riconosce dal fatto che gira sempre intorno alla medesima idea, anche quando quest’ultima è chiaramente irrealizzabile o sbagliata. Ora, di stupidi, come noto, il mondo è pieno e sono in numero molto più alto delle persone sensate e intelligenti. Assistono a quanto sta succedendo all’economia mondiale, alle macerie provocate dal sistema dei mercati finanziari e delle contrattazioni, alla caduta progressiva e inarrestabile dei ceti medi e dei loro redditi, che garantivano non certo l’opulenza ma la serenità esistenziale e dicono: “C’è troppo dirigismo, poca libertà. Bisogna privatizzare e liberalizzare. Lo Stato non è la soluzione ma il problema”.

Questo genere di stupidi appartiene proprio al regno della stupidità, anche quando ha una cattedra a Stanfford o ad Harvard perché, anche se ben retribuiti con contratti di consulenza con istituzioni finanziarie private, e quindi difensori ingaggiati dal capitalismo finanziario, non riescono a comprendere che il loro mondo sta proprio per terminare, insieme alle loro prebende e che continuare a difenderlo fino a raggiungere il fondo dell’inferno è il modo più efficace per bruciarsi.

Di fronte alla sconquassante crisi mondiale di questi ultimi mesi non siamo in grado di capacitarci del fatto che queste persone non si siano ancora rese conto della profonda inefficienza di questo modello capitalistico, tutto basato sulla deregolamentazione e sull’assenza dello Stato (che deve intervenire soltanto per risanare i danni prodotti dal capitalismo stesso) e della assoluta necessità di una riforma strutturale di esso e delle sue istituzioni con uno strumento esattamente contrario a quello di cui continuano a cianciare: una maggiore e ficcante regolamentazione. Infatti, il dato più evidente che emerge da questa crisi è la recessione da domanda, cioè il fatto che i cittadini non acquistano più merci e servizi come prima, a causa del generale impoverimento cui sono soggetti. Ciò determina una evidente caduta del livello dell’attività economica e, conseguentemente, dei profitti, cioè del rendimento dell’attività imprenditoriale. E così finisce per avverarsi la profezia di Carlo Marx che individuava proprio nella cosiddetta “caduta tendenziale del saggio del profitto” la principale causa della fine del capitalismo.

A misurare l’estensione di questo fenomeno è sufficiente il dato secondo cui, negli ultimi venti anni, c’è stato in Occidente uno spostamento di remunerazione dei fattori produttivi dal lavoro al capitale pari a circa dieci punti. Insomma, molti meno salari e molti più saggi di interesse, meno lavoratori e più detentori di liquidità, che viene impiegata velocemente in ogni mercato del mondo che riesca a offrire condizioni più appetibili. La conseguenza, fra l’altro, è stato un progressivo e massiccio intensificarsi dei processi di delocalizzazione, soprattutto verso l’Oriente, per il quasi nullo costo del lavoro e il consolidarsi di nuove forme di schiavismo, e il contemporaneo avanzamento della disoccupazione in Occidente, che ha contribuito ancora di più a rafforzare la recessione.

Ma nonostante queste evidenze, anche in Italia si continua a perorare la causa della destra economica. Alessandro De Nicola, ad esempio, in un allucinato articolo sull’ultimo numero de “L’Espresso” arriva ad affermare: “La litania sull’evasione ha stancato: bisogna stanarla, ma nel frattempo che si fa, si tassa chi già paga?” ed ancora: “Ecco perché se anche in Italia ci fosse un movimento che, come i Tea Party, rappresentasse con vigore (e senza le loro asperità) i nostrani tartassati, non sarebbe un gran male”. Continuiamo così, direbbe Nanni Moretti, continuiamo a farci del male.

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