Tra le immagini rubate a Teheran, la violenza di Melbourne e una Roma ponte tra Oriente e Occidente la Settima arte fa il suo giro all’Auditorium. Intanto alla Casa del Cinema…
ROMA – Il frullatore del Festival ormai gira a mille, tutto non è possibile seguire però, proprio per questo, si può tentare di tracciare dei percorsi inediti che inanellano storie e vicende apparentemente slegate tra loro. Proviamo a seguire uno di questi percorsi.
E’ stato presentato in concorso il film iraniano Dog Sweat del regista Hossein Keshavarz. Siamo nella Teheran dei giorni nostri quella che non vedremo mai in nessun telegiornale e reportage, ci sono i giovani iraniani con le loro storie a riempire lo schermo. Passioni per la musica e il canto, voglia di conoscere, l’amore che due ragazzi inseguono e una storia gay appena accennata e, soprattutto, immagini girate clandestinamente e poi fatte uscire dal paese. Sono né più né meno i ragazzi occidentali che conosciamo bene, le uniche differenze sono in quei baci solo accennati, le ragazze che portano il velo e dicono mercì, quale reminiscenza francese. Il clima che restituisce il film è pesante e oppressivo e infatti le riprese della pellicola sono terminate poco prima del giugno 2009 allorché scoppiarono gli scontri per le elezioni presidenziali che culminarono con l’uccisione della studentessa Neda, simbolo della rivolta. Anche per questo i giovani attori del film non hanno calcato il red carpet e si sono confusi fra il pubblico come semplici spettatori.
Saltando qualche continente si giunge a Melbourne (Australia) teatro del film Animal Kingdom del regista David Michod presentato fuori concorso e vincitore come miglior film straniero al Sundance Festival 2010. Qui il regista, che è anche un valente documentarista, racconta con la lente dell’entomologo la violenza che si annida nella pancia della middle class australiana. Da una sparatoria realmente accaduta nel 1988 si dipana la vicenda. Una famiglia terribile, a partire da una madre e nonna psicotica, si muove fra spaccio di droga e omicidi, resoconti alla polizia truccati e regolamenti di conti. L’atmosfera ansiogena monta senza bisogno di inseguimenti rocamboleschi e sparatorie all’OK Corral. Intanto la mamma/nonna dispensa bacetti a tutti i suoi pargoletti criminali, financo al giovane nipote costretto a crescere velocemente.
La macchina del tempo riparte improvvisamente e in pochi ciak/secondi ci riporta proprio a Roma, qui è ambientato Il Padre e lo Straniero di Ricky Tognazzi (lontano dalla macchina da presa da sette anni) tratto dal libro di Giancarlo De Cataldo. Diego (Alessandro Gassman) è un padre stanco e nervoso che segue il figlio handicappato, ad un centro di riabilitazione conosce Walid (Amr Waked), anch’egli padre di un figlio disabile, uomo in affari siriano, stranamente sereno e molto ricco. Da questo incontro fortuito nasce un’insolita amicizia che porterà entrambi a farsi spalla l’uno dell’altro come dicono a un certo punto: in queste situazioni difficili “un padre non basta”. Ci sono molti temi, quello disabilità, quello della diversità, il tema dell’incontro fra culture, ma ahimé, anche se i fili che tesse il regista sono molteplici la trama non prende forma e il film rimane irrisolto.
Ancora una inerziale scarburata alla Macchina del Tempo e siamo alla Casa del Cinema dove campeggia ancora il mega cartello di protesta dei lavoratori del cinema: “Tutti a Casa” a ricordare che le difficoltà dell’industria cinematografica sono ancora lì sul tappeto (ancora rosso sgargiante ma bucherellato dalle cicche gettate dai manifestanti) intanto all’interno proiettano Dieci Inverni di Valerio Mieli con la sala stracolma. La crisi non è certo di pubblico…