ROMA – L’attacco sull’articolo 18 è conseguenza della resa sul fronte europeo. Renzi, ormai presidente del Consiglio, aveva dichiarato di volere cambiare l’Europa e la sua fallimentare politica di austerità, fino alla possibilità, per l’Italia, di sforare il 3 % di deficit per contribuire al superamento della recessione che tormenta e impoverisce il nostro paese da 7 anni. Poi è intervenuto un repentino cambio di priorità, che in verità ricorda la storiella dei pifferi, e il Governo non ha neppure chiesto le deroghe come altri paesi europei.
Dal cambiamento delle politiche di austerità in Europa Renzi ha rapidamente invertito le priorità puntando sulle “riforme” con l’obiettivo di ottenere un allentamento dei vincoli per l’Italia.
La differenza con Monti e Letta si è così azzerata. Che vengano chiamati compiti a casa, alla Monti, o riforme per essere credibili, come dice Renzi, cambia poco o nulla. Così non c’è differenza tra chi diceva di vedere la luce in fondo al tunnel della crisi, come Monti – salvo essere ancora in crisi 2 anni dopo – e chi ha scritto previsioni economiche sballate nel Def, prevedendo una ripresa che non c’è. Anzi l’Italia è di nuovo in recessione, unico paese in Europa.
Invertendo le priorità e accettando i vincoli europei ora Renzi è costretto ad arrampicarsi sugli specchi. Quella che viene spacciata per eliminazione degli sprechi (il grasso che cola) è in realtà una politica di tagli che non fa prevedere nulla di buono e rischia di condannare l’Italia ad avere un 2015 con il Pil a crescita zero o giù di lì e con ulteriori perdite occupazionali. Uno studio della Confesercenti afferma che per tornare ai livelli pre crisi ci vorranno 7/8 anni e non è la valutazione più pessimista perché la regressione nei redditi, nel potere di acquisto e negli investimenti è di alcuni decenni e difficilmente recupereremo il 25 % di industria perduta, che per un paese trasformatore come l’Italia è un problema molto serio.
Sette anni di crisi hanno raddoppiato i disoccupati, che purtroppo aumenteranno ancora perché la crisi continua a mordere, e la caduta dei redditi da lavoro e la crescita delle disuguaglianze sono ormai il vero vincolo negativo per la ripresa economica in Italia e anche gli 80 euro hanno dimostrato di essere poca cosa.
Renzi invita all’ottimismo ma senza ottenere risultati concreti. La sostanza resta quella di un paese in grave crisi e in perdita verticale di fiducia, che non vede sbocchi credibili e sul quale viene esercitata una violenta pressione dei cantori dell’austerità europea, che condizionano pesantemente eventuali e limitati sostegni, se mai arriveranno, al compimento degli atti indicati nella lettera della Bce del 2011, a firma Trichet-Draghi. Il punto è ancora quello. Il nuovo attacco all’articolo 18 nasce dll’intreccio tra le pressioni della destra europea e la subalternità del governo che, non a caso, ripete continuamente che occorre fare le cosiddette riforme, indicate nella lettera di 3 anni fa. La sostanza di questi interventi è la piena subalternità del lavoro, senza regole e tutele in entrata e in uscita e la sostanziale genuflessione verso i capitali finanziari. In sostanza deve diventare chiaro chi comanda, come del resto ha detto chiaramente Marchionne.
Paghiamo oggi lo scotto dell’atteggiamento, in cui si è distinto Monti, di abbandonare al loro destino gli altri partner in crisi come la Grecia (noi non siamo come la Grecia, ecc.) e oggi non a caso portati come esempi da seguire dai falchi dell’austerità perché dopo le cure da cavallo che hanno subito ora hanno un poco di ripresa del pil, poco importa se a prezzo di livelli altissimi di disoccupazione e di precarietà. La Spagna portata ad esempio ha disoccupazione doppia dell’Italia. Non c’è oggi un fronte dei paesi in difficoltà perché gli altri hanno già subito e sperano ora di trarne beneficio. Anche la Francia si è guardata dal fare lega con gli altri paesi e oggi è infatti ora è più che mai ricattabile dal fronte dell’austerità egemonizzato dalla Germania.
Le dichiarazioni di Renzi si sono rivelate velleitarie, forse non ha mai pensato di aprire un vero contenzioso a livello europeo. Per questo ha preferito occuparsi della nomina della Mogherini e si è accontentato delle promesse di Juncker. In ogni caso la linea europea è: prima l’Italia fa poi si vedrà e deve essere chiaro che prima dell’autunno 2015 dall’Europa non verranno neppure le cosiddette flessibilità.
Anzi, Draghi ha ricordato che l’impegno dell’Italia è arrivare al 2,6% di deficit nel 2014. Perfino il non sforeremo il 3 % di Renzi è visto male, eppure si tratta di una differenza di pochi miliardi. Ora Renzi è al bivio. Finita la stagione delle chiacchiere, deve decidere. Se accetta le imposizioni dei neoliberisti ci sarà un’ulteriore svalutazione del lavoro e del suo contributo alla domanda interna, quindi il paese non si riprenderà. Se non le accetta deve affrontare di petto i problemi che sono essenzialmente 2. Il primo è dove reperire le risorse per spingere la ripresa e questo è possibile solo con patrimoniale, tassazione delle rendite, lotta seria all’evasione e duro intervento sugli esportatori di capitali. In poche parole solo colpendo le disuguaglianze il paese può trovare le risorse per uscire dalla crisi e per farlo deve affrontare le resistenze della destra. Il secondo è usare le risorse così reperite per un piano di investimenti concordato dal Governo con le imprese e i lavoratori per conquistare spazi nella divisione internazionale del lavoro, a queste condizioni se qualche investitore estero vuole essere della partita è il benvenuto. Questa via comporta una rivalutazione del lavoro e dell’occupazione ed è il contrario del taglio dei diritti e dei salari, della precarietà, dell’abolizione dell’articolo 18.
Ci sono altre cose da fare, prima possibile, come dare respiro ai redditi da lavoro, impegnare i lavoratori della scuola a costruire una struttura educativa moderna e quelli della pubblica amministrazione a costruire una struttura efficiente e servizi adeguati alle esigenze del paese e ai suoi cambiamenti. Anche se per la ripresa i primi 2 capitoli sono essenziali, perché se invece il governo riprenderà il sentiero dei tagli allo stato sociale e dell’ulteriore prelievo, più o meno decentrato, sui redditi il nostro paese non uscirà dalla crisi. Se poi fosse vero che si pensa di aumentare ancora l’Iva i consumi affonderebbero.
E’ chiaro ormai che il paese deve uscire dalla crisi anzitutto con le sue forze, può farlo a destra, accettando i diktat dell’austerità per ottenere forse tra un anno qualche zero virgola di aiuto dall’Europa, oppure può farlo a sinistra con politiche fondate sull’uguaglianza e sull’estensione della qualità e dei diritti, prendendo le risorse dove sono ed evitando così di trascinare una situazione di crisi che potrebbe portarci entro un paio d’anni a dovere subire la ristrutturazione del debito con la conseguente messa sotto la tutela della troika.
Andrebbe meglio valutata una novità. La crisi spinge chi può a risparmiare e infatti il risparmio affidato ai gestori è quasi raddoppiato nel 2014 e sono molti soldi. Perché non proporre a questi risparmiatori un progetto a guida pubblica credibile di utilizzo di queste risorse, che altrimenti potrebbero finire sui bund tedeschi o a finanziare investimenti in altri paesi?
E’ preoccupante che nell’attuale scenario politico venga a mancare il ruolo critico che tutta la sinistra ha svolto in passato e che il M5S non sembra in grado di svolgere. Fare coincidere segretario politico e premier ha messo una pietra tombale sulla possibilità di una dialettica e questo è stato possibile perché il Pd annichilito dalla sconfitta nel 2013, poi dal siluramento di Prodi e dall’incapacità di formare un governo senza la destra si è consegnato nelle mani di Renzi, in particolare dopo il suo successo alle elezioni europee, ma fare coincidere i destini del Pd con quelli del leader, affermando che è l’ultima possibilità, è un esercizio pericoloso. Altrimenti un possibile fallimento del leader non potrà essere gestito che da un altro soggetto politico. Senza un pungolo, senza l’esercizio della critica, quella che oggi sembra una posizione forte potrebbe rivelarsi una debolezza fatale, trascinando nella crisi non solo il leader ma il Pd e questo sarebbe un problema tutto l’arco del centrosinistra.