Renzi rischia di rottamarsi da solo, sindacati ‘in-credibili’

ROMA – Mister Mille promesse, ovvero il nostro premier delle riforme facili, delle apparizioni televisive, dai mille volti persuasivi, è riuscito finalmente nel suo ambito progetto, ovvero il “divide et impera”. Lo ha fatto nel suo partito, lo ha provocato nei sindacati e anche in coloro che credevano che scorresse ancora un briciolo di sinistra nelle sue vene.

Matteo Renzi dal suo piedistallo ha attaccato l’articolo 18, ha detto ai sindacati che, se i tempi di approvazione della delega dovessero dilatarsi, il governo è pronto a ricorrere al decreto. Ha perfino tuonato contro quelli che dovrebbero tutelare lavoro e lavoratori, accusandoli di non essere mai stati nel posto giusto al momento opportuno. I sindacati, offesi e basiti dalle dure parole del premier, prima si sono indignati poi hanno replicato a loro volta. Si sono appellati ai valori primordiali del sindacalismo, sono ricorsi ai diritti sacrosanti e inalienabili dei lavoratori, infine, guarda caso, hanno lanciato messaggi di apertura con tanto di polemiche tra loro. Insomma, esattamente come avviene in una vertenza di lavoro, quando inizialmente fanno la voce grossa per tranquillizzare i lavoratori e poi, quando meno te l’aspetti, magari a notte fonda, siglano intese e firmano accordi inizialmente inaccettabili. Bonanni ha già detto che la Camusso ha sbagliato a replicare a Renzi (definendolo come la Thatcher ndr). La leader della Cgil a sua volta ha lanciato segnali inequivocabili di mobilitazione, a patto che questi trovino l’unità d’intenti, poi invece si è detta disponibile ad un confronto pur di evitare lo scontro. Angeletti infine si è detto disposto da subito ad aprire il dialogo sull’articolo 18.

Insomma il teatrino sindacale ha sempre lo stesso rituale, ormai metabolizzato anche dagli stessi lavoratori che, nel corso degli anni, hanno visto alienarsi dapprima i diritti salariali fino ad arrivare oggi al tentativo di dissoluzione di tutti i diritti acquisti in anni di lotte sindacali. Insomma, il sindacato avendo perso il ruolo di difensore dei diritti ha preferito assumere quello di mediatore, attraverso una contrattazione adattiva, perdendo parte della sua credibilità e venendo meno a quel patto fiduciario tra sindacato stesso e lavoratore, in cui il primo si sarebbe impegnato a migliorare le condizioni di vita, il secondo ne avrebbe, con il suo sostegno, rafforzato l’autorevolezza e il potere contrattuale.

Un rapporto che è invece andato sgretolandosi, avendo il sindacato con il tempo preferito assumere un riconoscimento ‘istituzionale’ piuttosto che rappresentativo dei lavoratori, e che ora Renzi vuole cogliere al volo per dare il cosiddetto colpo di grazia finale, al quale probabilmente i sindacati stessi neppure opporranno resistenza, se non formalmente.

In tutto questo lo scontro per l’articolo 18 rimane acceso anche all’interno del Partito Democratico, in cui regna la confusione. Renzi parla di scontri ideologici, affonda contro la minoranza interna, cerca la sponda dei giovani turchi, ma c’è il rischio che la vicenda rischi di implodere su se stessa. Lo fa intendere chiaramente anche Gianni Cuperlo quando incalza il premier dichiarando che “il Presidente del Consiglio ha il dovere di indicare il percorso che si vuole fare per arrivare ad una riforma del lavoro che estenda davvero i diritti a chi non li ha. Quello che non possiamo accettare – precisa sempre Cuperlo – è che questa discussione venga strumentalizzata per dividere il Pd tra innovatori e conservatori o per minacciare decreti”. Ma non è tutto. “Non sarà con le provocazioni o con gli ultimatum che l’Italia uscirà da questa crisi”, dice Cuperlo.

E difatti chi fa il presidente del Consiglio ha una responsabilità in più, che non è quella di indicare i buoni e i cattivi. Il rischio dunque è quello di un effetto boomerang in cui anche lo stesso Renzi finisca per rottamarsi da solo.

 

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