ROMA – La vittoria di Siryza e la formazione del nuovo Governo guidato da Tsipras sono fatti politici di prima grandezza anzitutto per la Grecia, che ha ritrovato così la forza di reagire al ricatto dell’austerità che dura ormai da più di 5 anni e che l’ha ridotta in condizioni di vera e propria prostrazione sociale.
Questa vittoria è importante per la sinistra in Europa, che pur criticando la scelta dell’austerità e le sue conseguenze sociali drammatiche, non è riuscita finora a dare credibilità alternativa e forza alla sua iniziativa.
Le misure imposte alla Grecia (e accettate dai governi greci che si sono succeduti fino ad oggi) sono servite da spauracchio per convincere i riottosi in Europa ad accettare o almeno a subire senza troppo protestare le conseguenze delle politiche di austerità. E’ vero che la Grecia ha perso un quarto della sua economia, ma è altrettanto vero che l’Italia ha perso oltre il 10 % del Pil e oltre il 20 % del suo potenziale industriale, che per un paese essenzialmente trasformatore di materie prime come il nostro è un’enormità. Anche i dati sulla disoccupazione dicono che la Grecia ha pagato un prezzo altissimo, ma anche in Italia c’è stato il raddoppio dei disoccupati durante questa crisi che sembra non finire mai e purtroppo non c’è da farsi illusioni a breve, in particolare sull’occupazione.
La questione di fondo è che i paesi più colpiti dalle politiche di austerità o perché più deboli o perché esposti per il livello del debito sono andati in ordine sparso, a partire dalla Francia che ha fatto carte false per non aggiungere una F ai PIGS. Questo ha drammaticamente diviso e indebolito il fronte contro l’austerità. Monti, ad esempio, ha ripetuto spesso che l’Italia non è come la Grecia, come se fosse un titolo di vanto. Dopo di lui i governi hanno proseguito nella litania dei compiti da fare a casa, chiamati in modi diversi, come fa Renzi che li chiama riforme che servono all’Italia, ma la sostanza resta la stessa. Il risultato è che l’area dell’Europa più in difficoltà ha perso occupati e pezzi di economia per strada, come conferma la riduzione del Pil. La novità è che ora anche l’area di paesi che pure ha anche guadagnato dalle disgrazie altrui, perché i capitali accorrevano verso i paesi più forti e che hanno accresciuto enormemente l’avanzo commerciale, ha finito con il cadere nella trappola della deflazione, che non a caso è vista oggi come il pericolo maggiore, finalmente riconosciuto, anche dalla Bce e che è alla base degli interventi di espansione finanziaria decisa.
Quindi anche chi sta meglio è oggi vittima di una politica di austerità cieca ed ideologica che ha negato l’evidenza, imponendo politiche di restrizione proprio quando l’economia e l’occupazione andavano sostenute con interventi di allargamento mirato della domanda e dell’occupazione. La crisi in questi anni è stata l’occasione per un formidabile trasferimento di risorse dal basso verso i redditi alti, infatti i ceti più ricchi oggi lo sono ancora di più.
Qualcosa si muove in Europa, ma più per la vittoria di Tsipras, data per scontata anche a livello europeo, che per vera convinzione sulla necessità di cambiare strada. Il problema è che la Grecia non basta per cambiare l’Europa. Non è il caso di farsi illusioni perché a favore delle politiche di austerità ci sono enormi egoismi sociali ed interessi che non sono disponibili a mollare i privilegi acquisiti, anche durante la crisi per il resto dei cittadini.
La questione di un’alternativa alle politiche di austerità, non solo in Grecia, si pone con forza a livello europeo e nei singoli paesi.
Vengono spesso citati il piano Juncker e la manovra finanziaria decisa dalla Bce come segnali positivi, ed in parte è così, perchè tutto quello che si muove per superare una politica restrittiva dei bilanci pubblici può aiutare. Draghi è il primo ad ammettere che non basta immettere liquidità per risolvere la crisi.
Tuttavia è necessario leggere le misure della della Commissione e della Bce con maggiore attenzione perché non tutto è come appare. Ad esempio non è cosa di poco conto che Juncker abbia a disposizione solo 21 miliardi e gli altri debbano metterceli gli Stati interessati a fare gli investimenti, che al massimo avranno la possibilità di conteggiare queste risorse fuori dal debito ai fini del patto di stabilità. In sostanza la solidarietà europea è poca cosa. Così non è di poco conto che la Bce garantisca solo il 20% dei 1100 miliardi di euro che verranno immessi nell’economia, per di più di questi solo una somma pari all’8 % andranno a garanzia europea perché il 12 % andrà a garantire gli strumenti di intervento europei. Il resto delle garanzie è a carico delle banche centrali dei diversi paesi. Quindi Banca d’Italia dovrà fare fronte con le sue riserve agli acquisti di debito italiano per l’80 % del totale degli acquisti, senza contare altri vincoli come il massimo di interventi previsto. L’unico modo per fronteggiare la crisi dell’eurozona è più Europa, cioè mettere in comune gradualmente istituzioni, politiche, interventi e risorse, mentre qui c’è meno intervento europeo di quello che è necessario. Anzi si arriva a nazionalizzare l’80 % degli interventi. Il risultato certo è che una exit strategy dei singoli stati è di fatto sterilizzata. Inoltre più denaro in circolazione non porta automaticamente a più finanziamenti per famiglie ed imprese, perché sono le banche che debbono decidere di farlo e per ora cercano anzitutto di alleggerire le loro posizioni, non di espandere gli interventi. C’è un concetto rivelatore dell’intervento della Bce: ora speriamo che le banche finanzino l’economia reale. Nessuno è certo dei risultati. Inoltre portare l’inflazione verso il 2 %, presentata come una benedizione, non è affatto una manovra indolore, perchè comporta che le famiglie, i cui redditi resteranno quelli attuali, dovranno fare i conti con aumenti dei prezzi, mentre finora il contenimento dei prezzi ha contribuito a contenere la perdita di potere d’acquisto. Quali misure di tutela del potere di acquisto verranno prese per i lavoratori e i pensionati ?
Anche per questo non c’è alternativa ad una battaglia seria per cambiare gli orientamenti fondamentali dell’Europa. Il problema di fondo, come dimostra la vittoria di Tsipras, è aprire un contenzioso in Europa per cambiare la linea fin qui seguita, ma la Grecia non basta, occorre che altri paesi si aggiungano e riprendano il coraggio di un’iniziativa comune che non si limiti a cercare gli spazi di flessibilità possibili, ma alzi la bandiera di un’alternativa in Europa all’austerità, ormai assunta a dogma e in questo quadro andrebbe riaperto il problema di modificare l’articolo 81 della Costituzione – quello cambiato alla chetichella, impedendo alla maggioranza degli italiani di capire cosa stava accadendo – che afferma il contrario di quanto si afferma di chiedere all’Europa.