Mario Draghi: l’uomo che ha salvato l’Europa

Nell’anno in cui ricorre il trentesimo anniversario dalla scomparsa, e non sappiamo se anche dalla morte, del grande economista Federico Caffè, ricorrono, per uno strano caso della vita, anche i settant’anni di uno dei suoi allievi più celebri e brillanti: Mario Draghi, attualmente governatore della Banca Centrale Europea (BCE).

Reduce dal vertice dei banchieri centrali a Jackson Hole, nel Wyoming, dove ha fatto fronte comune con la governatrice della Federal Reserve (FED), Janet Yellen, sui rischi legati alla presidenza di Donald Trump, non c’è dubbio che gli vada riconosciuto il merito di aver salvato l’Europa dal tracollo. 

Se il 26 luglio 2012 al posto di Draghi ci fosse stato, tanto per dirne uno, il suo probabile successore Weidmann (attualmente alla guida della Bundesbank), anziché la rassicurazione sul fatto che la BCE avrebbe fatto tutto il possibile per salvare l’euro (“whatever it takes), avremmo avuto infatti, con ogni probabilità, critiche e attacchi contro le “cicale” del Mediterraneo, con l’ovvia conseguenza del crollo definitivo della già fragile architettura economica del Vecchio Continente.

Se l’Unione Europea non è collassata, nonostante la Brexit e i pericolosi venti protezionisti che spirano da oltreoceano, e se il razzismo, la xenofobia e l’anti-europeismo non hanno ancora avuto il sopravvento, il merito va dunque ascritto al coraggioso piano di acquisto di titoli di Stato (il Quantitative Easing) messo in atto, a partire dal 2014, da un uomo che si è ricordato, al momento opportuno, della principale lezione del suo maestro, il quale sosteneva che “poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore”. Non solo: Caffè denunciava pure “i limiti intrinseci all’operare dell’economia di mercato, anche nell’ipotesi eroica che essa funzioni in condizioni perfettamente concorrenziali”. E aggiungeva: “È molto frequente nelle discussioni correnti rilevare un’insistenza metodica sui vantaggi operativi del sistema mercato, e magari su tutto ciò che ne intralci lo “spontaneo” meccanismo, senza alcuna contestuale avvertenza sui connaturali difetti del meccanismo stesso”. 

Certo, stiamo parlando dello stesso Draghi che negli anni Novanta fu tra i principali fautori delle privatizzazioni che hanno, di fatto, messo in ginocchio il nostro Paese, privandolo di asset strategici, primo fra tutti Telecom, di cui mai e poi mai si sarebbe dovuto privare; certo, alcune sue proposte non sono andate affatto nella direzione auspicata da Caffè; certo, il liberismo selvaggio degli ultimi trent’anni ha avuto delle ripercussioni notevoli anche sul suo pensiero e sulla sua visione economica; senza dimenticare la famigerata lettera che inviò, insieme a Trichet, al governo Berlusconi nel drammatico agosto del 2011, chiedendogli di realizzare una serie di riforme lacrime e sangue che poi avrebbe attuato Monti con le ricadute che tutti sappiamo; fatto sta che se il nostro Paese è rimasto a galla, l’Europa non si è disunita, i populismi ingannevoli e cialtroneschi in auge pressoché ovunque non hanno avuto la meglio e oggi assistiamo ad una sia pur timida ripresa, è innegabile che il governatore della BCE abbia avuto un ruolo di primo piano nello scongiurare la paventata catastrofe.

Allo stesso modo, è innegabile che se in Italia i conti non sono in ordine, il debito pubblico continua ad essere esorbitante e le prospettive per il futuro sono tutt’altro che rosee, la colpa è più che mai delle riforme di sistema che proprio Draghi ha chiesto per anni a gran voce e che il governo Renzi si è ben guardato dal realizzare, preferendo affidarsi a bonus, mance elettorali e altre regalie che, oltre a non aver rilanciato l’economia e favorito più di tanto i consumi, non hanno neanche consentito alle frange più deboli della società di sentirsi maggiormente coinvolte nel processo democratico né di godere di una piena e significativa cittadinanza. 

Settant’anni, una cultura economica di alto livello e la capacità di porsi come attore politico implicito ai tavoli che contano nel contesto di un’Europa gravata dall’assenza di leadership all’altezza e dall’ascesa di figure minori che un po’ ovunque, fatta salva la Germania, stanno abusando del proprio potere, non associando ad esso la competenza necessaria a far percepire ai cittadini la vicinanza e l’attenzione di cui avrebbero, invece, bisogno. 

Nella stagione della massima incertezza, con una Yellen in scadenza di mandato e lo spettro di un governatore della FED di matrice trumpista che si staglia all’orizzonte, al cospetto del rampantismo di Weidmann, delle mire pseudo-napoleoniche di Macron, di un’Italia praticamente in disarmo e di una Spagna in bilico fra ripresa del PIL e acuirsi della questione sociale e, adesso, anche della mancanza di sicurezza interna, in un quadro tanto fosco, Draghi costituisce, insomma, l’ultima ancora alla quale aggrapparsi per provare a scongiurare la barbarie. Senza contare che il suo indubbio prestigio personale è una delle ultime speranze che abbiamo, una sorta di garanzia che ancora per due anni possiamo spenderci al cospetto del mondo. Dopodiché, o la politica italiana ed europea si rimetterà in carreggiata o lo scenario weimariano, con tutte le conseguenze del caso, purtroppo non sarà da escludere.

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