La triste Europa che non apprezza gli statisti

Potremmo star qui a commentare la crisi storica, e diremmo quasi epocale, della sinistra europea; potremmo stigmatizzare l’assurda scelta dell’SPD di trasformarsi in una sorta di corrente progressista, e neanche troppo, della CDU-CSU; potremmo scagliarci contro la barbarie delle larghe intese, assurte a totem di questa stagione con le conseguenze che ormai sono sotto gli occhi di tutti; potremmo concentrarci su questi pur significativi dettagli ma perderemmo di vista l’aspetto più inquietante che è emerso ieri dalle elezioni tedesche.  

Il punto, infatti, è che la Merkel è stata messa in discussione, e sostanzialmente sconfitta, da una forza politica xenofoba e per certi aspetti neonazista, la cui predicazione ci riporta a quello “zeitgeist” pre-hitleriano che caratterizzò la Germania a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Una Germania da circolo di Bayreuth, una Germania in cui sono tornati improvvisamente d’attualità termini come il sangue e il suolo, una Germania in cui il concetto di “vökisch” è riaffiorato da un passato che speravamo di esserci lasciati per sempre alle spalle, facendo risorgere avventure pericolose come quella di Alternative für Deutschland e, peggio ancora, del movimento PEGIDA. Una Germania, insomma, in cui la Cancelliera, benché riconfermata, ha pagato a caro prezzo la scelta di comportarsi da statista, di accogliere i profughi siriani e gli ultimi della Terra, di non piegarsi allo scempio del razzismo imperante e di non assecondare la vague bestiale che stiamo attraversando, opponendo ai rigurgiti xenofobi di una parte del suo stesso partito la fermezza di quei princìpi umanitari che sempre dovrebbero caratterizzare un capo di governo.

La Merkel ha pagato, inoltre, il fatto di aver sostanzialmente privato i socialdemocratici dei propri argomenti cardine, facendoli apparire alla sua destra, e in effetti lo sono, e di aver sposato molte delle battaglie ambientaliste tipiche dei Verdi, dando vita ad un centrosinistra di fatto che non è mai andato bene alle frange più intransigenti della CDU e, ancor più, agli scomodi alleati bavaresi della CSU. 

Ha pagato, in pratica, il fatto di essere l’ultima statista rimasta in un’Europa di nanerottoli, di personaggi per lo più improvvisati e raccogliticci o, in alternativa, costruiti in laboratorio: una classe politica in provetta cui manca la comprensione dei processi storici, della vita reale dei cittadini, delle sofferenze degli ultimi e degli esclusi e del senso di frustrazione dei dannati della globalizzazione. Una politica che, al massimo, offre slogan e frasi fatte, tabù e nemici contro cui scagliarsi; una politica fragile e priva di complessità; una politica in cui si liquida come “populismo” ogni forma di pensiero alternativo, di richiesta di radicalità e di opposizione ai dogmi liberisti che si stanno rivelando, giorno dopo giorno, i virus in grado di uccidere il progetto europeo.

L’SPD affonda con pieno merito: affonda perché ha tradito la propria tradizione e la propria stessa ragione di esistere, trasformandosi nel principale sostenitore dell’austerità senza respiro e, quel che è peggio, nel più acceso sostenitore del tentativo di massacrare la Grecia, venendo meno a quel dovere della solidarietà verso i più deboli senza il quale la sinistra può anche chiudere i battenti. La SPD, del resto, negli ultimi vent’anni, non è stata all’altezza di Kohl ed è stata nettamente a destra della Merkel, presentando oltretutto candidati per lo più inadeguati: paladini dell’establishment, europeisti a corrente alternata o figure semplicemente invotabili come Peer Steinbrück, principale sostenitore del Fiscal compact. 

Ora i socialdemocratici annunciano che non accetteranno un nuovo esecutivo di larghe intese e passeranno all’opposizione della Merkel: è un primo passo ma rischia di essere troppo tardi. Chi si sente tradito e preso in giro, prima di tornare a casa, ci penserà a lungo.

L’attuale SPD è lo stesso partito, infatti, che per anni ha esaltato le riforme di Schröder e irriso Lafontaine, promotore della scissione dall’SPD e fondatore della Linke, con la conseguenza che non governa più dal 2005 e, quando governa, delude e si trasforma in un soggetto persecutorio nei confronti dei ceti che, invece, dovrebbe rappresentare. 

Come spesso è accaduto in questi anni, poi, i giovani si sono rivelati i più europeisti, guardandosi bene dal votare per l’AfD e chiedendo, al contrario, un’inversione di rotta nelle politiche sociali che ne stanno mettendo a repentaglio il futuro. 

AfD, in compenso, ha dilagato a est, dove il disagio sociale è maggiore e il processo di integrazione non si è ancora concluso o, comunque, non si è rivelato soddisfacente. Ha dilagato dove i timori per il domani sono atroci e la sinistra pressoché assente, proprio come nelle regioni a est della Francia in cui il Front National ha ottenuto una messe di consensi. Ha dilagato perché questa crisi non è tedesca ma europea, globale, sistemica: i popoli avvertono la necessità di scardinare un modello di sviluppo insostenibile e si affidano a chiunque prometta di farlo, sia pur condendo il tutto con massicce dosi di xenofobia e insulti alla dignità umana. 

Ciò che sta accadendo non è, dunque, molto diverso da ciò che accadde esattamente un secolo fa, quando la Germania devastata a Versailles dalla miopia dei vincitori del primo conflitto mondiale cadde in una spirale straziante che la condusse dritta fra le braccia di chi prometteva di risollevarla e sappiamo tutti come. 

D’altronde, un grande giurista tedesco asseriva che il vero problema della democrazia non è tanto la forza dei suoi oppositori quanto la debolezza dei suoi sostenitori. Si chiamava Gustav Radbruch, ministro della Giustizia della Repubblica di Weimar.

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