Johan Cruijff e l’ideologia della bellezza

ROMA – ra il calcio, era l’Olanda, era l’Ajax, era il Barcellona, era l’estro, era la bellezza, era l’epica applicata allo sport, era un magnifico “dittatore” dentro e fuori dal campo, incapace di adattarsi alle mode correnti e capace, al contrario, di mutarle radicalmente, segnando un’epoca e trasformando in meglio i costumi di qualunque ambiente. Era Johan Cruijff, il profeta del gol, l’istrione, il simbolo, il mito di quell'”Arancia meccanica” olandese che fece innamorare il mondo intero e fu l’emblema di una generazione tanto nobile negli ideali quanto incompiuta nelle azioni concrete.

E non che quel funambolo biondo non abbia vinto, non che non sia stato un punto di riferimento in tutte le squadre in cui ha giocato, non che non avesse una mentalità competitiva e costantemente votata all’attacco, ma era anche e soprattutto un ideologo della coralità, un solista cosciente dell’importanza di esser gruppo, un gigante convinto di dover compiere una rivoluzione sportiva prima ancora che di dover sollevare al cielo un trofeo.

E questo ha fatto, per tutta la vita: dapprima in campo, nelle file dei lancieri di Amsterdam e successivamente nelle file di quello che i catalani considerano più di un club; senza dimenticare, naturalmente, l’Olanda di Rinus Michels che cadde a un passo dal traguardo ma gettò un seme che ha cambiato per sempre il modo di intendere il calcio, al punto che se riguardiamo oggi una partita degli anni Sessanta i giocatori, pur essendo dei furetti, ci sembrano quasi fermi.

Esiste, infatti, un calcio prima di Cruijff e un calcio incredibilmente diverso dopo Cruijff, così come esiste un Barcellona forte ma fragile e insicuro prima del suo avvento e un “dream team” in grado di dominare in lungo e in largo da un quarto di secolo, ossia da quando il predicatore olandese ha portato in Catalogna il suo verbo calcistico e introdotto il concetto di totalità in un ambiente narcisisticamente innamorato della propria bellezza ma non in grado di darsi un obiettivo e di raggiungerlo. Cruijff, all’opposto, era classe, eleganza, poesia, forza, ardore ma era anche concretezza, determinazione, furia agonistica, intensità, programmazione meticolosa e concentrazione assoluta, senza mai un calo di tensione.

Totale in tutto, anche nei rapporti umani, tanto che era in grado di suscitare grandi simpatie e tremende antipatie, nemico com’era del politicamente corretto, della diplomazia, dell’ipocrisia, di qualunque forma di mediazione, della scaramanzia e della modestia.

Cruijff era grande perché costantemente fuori dagli schemi, era grande perché sapeva di essere un campione e non faceva nulla per nasconderlo, era grande perché ha sempre fatto pesare a dovere la propria classe cristallina e ineguagliabile, era grande perché non era solo un giocatore ma un ideologo, un ispiratore, un inventore, un fuoriclasse empirico nella sua continua ricerca di nuove soluzioni.

Era, in poche parole, un pittore di traiettorie, il Leonardo da Vinci del calcio, il campione europeo del Ventesimo secolo, l’artefice di una riscossa collettiva che seppe coniugare il talento individuale alla necessità di essere sempre e comunque una comunità in cammino.

Ci lascia troppo presto, ci dice addio in un tempo senza poesia, in una stagione che di sicuro non gli piaceva, al cospetto di un calcio nel quale faceva fatica a riconoscersi, in un mondo troppo violento e individualista per appassionare un raffinato esteta, cultore dell’eleganza come lui. 

Se ne va lasciando in eredità quel gioiello planetario che è il Barcellona dei canterani che sono amici e compagni d’avventura prima ancora che professionisti multi-milionari. L’ennesimo sberleffo a un ambiente in declino, proprio come la sua morte, estremo, dolorosissimo atto di ribellione a una società che non gli apparteneva più. 

Ci mancherà il ribelle Cruijff, ma ancor più ci mancherà il suo essere l’incarnazione di un’altra idea di mondo, l’interprete più autentico di una concezione positiva della vita che riusciva a trasformare in leggenda persino una sconfitta bruciante come quella patita dall’Olanda al Mondiale tedesco del ’74, vinto dalla Germania Ovest. Era capace anche di questo il maestro Cruijff: di far ricordare, a distanza di oltre quarant’anni, più gli sconfitti che i vincitori. Perché lui quella partita l’ha persa sul campo ma l’ha vinta dove contava davvero: ogni giorno, nella sua costante battaglia contro l’ingiustizia, nel suo inseguire sogni che poi si trasformavano in realtà, nel suo essere un uomo autentico e sincero: tutte virtù che negli ultimi decenni, purtroppo, sono andate perdute.

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