“Veleno” Lorenzi e un calcio che non c’è più

Benito Lorenzi da Borgo a Buggiano, toscanaccio della provincia di Pistoia, soprannominato “Veleno” non solo per il carattere burbero e per l’irriverenza con la quale faceva valere la propria classe e il proprio talento in campo ma anche perché aveva il pessimo vizio di sputare addosso agli avversari. 

“Veleno”: uno che subiva una montagna di squalifiche all’epoca e che oggi, con ogni probabilità, sarebbe finito nell’elenco dei cattivi ragazzi e degli esempi da non seguire, al punto che lui stesso, già una trentina d’anni fa, sosteneva che nel calcio moderno sarebbe stato messo all’indice. 

Troppo guascone, troppo maramaldo, troppo irruente, troppo un ragazzo degli anni Cinquanta, ingenuo sul modello di Maurizio Arena e Renato Salvatori in “Poveri ma belli”, con la stessa sfrontatezza, lo stesso atteggiamento da spaccone e la stessa follia, tipica di quell’Italia che voleva tornare a vivere e non aveva tempo per i fronzoli; un ragazzo d’altri tempi, insomma, un uomo intriso di valori ormai misconosciuti, un calciatore di gran classe e un attaccante che tuttora farebbe la fortuna della maggior parte delle squadre di Serie A, nemico del politicamente corretto un po’ come tutti i toscani e figlio di una stagione che perdonava anche l’esagerazione, a patto che non venissero mai meno alcune regole non scritte che innervavano quella società in cui i ruoli avevano un’importanza fondamentale. 

“Veleno” sapeva sfidare il mondo, sapeva essere eccessivo, smodato, a tratti quasi fastidioso ma aveva anche un cuore grande così, tanto che prese sotto la propria ala un giovanissimo Mazzola e covò quel pulcino di belle speranze fino a farne uno dei punti di forza della Grande Inter di Helenio Herrera. 

Oggi un personaggio del genere non verrebbe né capito né apprezzato: troppo scaltro, troppo verace, troppo genuino quel ragazzo che dileggiava Boniperti chiamandolo “Marisa” e Charles mettendo in dubbio la moralità della regina Elisabetta. Era un calcio e un mondo, quello del giovane Lorenzi, in cui ci si poteva permettere persino di essere scanzonati, in quanto tutti avevano ancora bene in mente cosa volessero dire il dolore, la sofferenza e la morte e tutti sapevano quando fosse il momento di scherzare e quando fosse, invece, opportuno rimanere seri. 

Lorenzi se ne è andato dieci anni fa: non ha fatto in tempo a festeggiare l’ultimo ciclo vincente dei nerazzurri, targato Mancini e Mourinho, ma ha visto e vissuto abbastanza in nerazzurro per essersi goduto un’epopea sportiva assolutamente affascinante, della quale egli stesso è stato fra gli artefici e i principali protagonisti. 

Insieme a Skoglund e Nyers compose un attacco da favola, in grado di anticipare i fasti dello squadrone del Mago e di battagliare alla pari con le corazzate Milan e Juventus. 

Se ne andò a ottantuno anni, stranamente in silenzio, lui che quando giocava faceva sempre notizia, lui che quando segnava esultava in maniera volutamente irridente, lui che la parte del comprimario proprio non la sapeva recitare. Invece, alla fine, scelse la pacatezza, la tranquillità, la quiete e la dolcezza dei ricordi: un incredibile contrappasso per un funambolo abituato a conquistare le prime pagine dei giornali e a porsi sempre e comunque al centro della scena, precorrendo di qualche anno un altro fuoriclasse dal carattere turbolento come l’argentino Omar Sivori. 

Sì “Veleno”, ci manchi: ci mancano persino i tuoi sputi, persino le tue battutacce, persino la tua goliardia prossima alla dissacrazione; ci manca quell’Italia semplice nella quale tutto sembrava possibile, povera ma bella, proprio come fosti tu, eterno ragazzo di un pallone strampalato che, rotolando in rete, era ancora in grado di suscitare qualche sorriso autentico.

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