Maradona: come lui nessuno mai

Diego Armando Maradona, al pari di Pelé, Di Stefano, Best e Cruijff, non è stato solo un calciatore: è stato il calcio in persona. 

Ha commesso anche molti errori, sia chiaro: è precipitato nel girone dantesco della droga, è ingrassato fino a mettere a repentaglio la salute e la propria stessa vita, ha compiuto tutti gli eccessi possibili e immaginabili, ha approfittato a piene mani dell’indolenza tipica di una città geniale e levantina come Napoli e della nostalgica asprezza propria dell’Andalusia, quando andò a Siviglia a cercare di ricostruirsi una dignità dopo aver illuminato, dieci anni prima, l’ammaliante ma per lui ostica Barcellona;  insomma, è stato tutt’altro che un santo ma ciò non toglie che quando vent’anni fa diede l’addio al calcio, con un’ultima recita ufficiale al Monumental di Buenos Aires (lo stadio dei rivali del River Plate), prima della gara d’addio disputata nell’ottobre del 2001 alla Bombonera (casa del suo Boca Juniors), avvertimmo tutti un indicibile senso di vuoto.

Perché il calcio senza Diego non era più la stessa cosa, non aveva più il suo condottiero, il suo Guevara pronto a sfidare le asperità di ogni sierra boliviana, il suo José Martí, il suo capopopolo che sarebbe stato protagonista anche sul Granma al fianco di Fidel, come lo fu in un pomeriggio di inizio estate dell’86, quando umiliò gli inglesi invasori delle Malvine con una voluta scorrettezza, subito dopo riscattata dal prodigio di uno slalom gigante che era al tempo stesso rabbia e meraviglia, furia e poesia, l’immensità di un genio e l’epica di un campione, la battaglia personale di un guerriero indomito e l’atto d’amore di un uomo nei confronti della sua terra disperata. 

Diego Armando Maradona è stato il riscatto dopo la barbarie videliana, la sfida ai vincoli, alle burocrazie e all’ordine costituito che, non a caso, gli ha dichiarato guerra a livello planetario, condannandolo ad esempio a perdere immeritatamente la finale del Mondiale italiano del ’90 con un rigore dubbio assegnato alla Germania che la saggezza del cancelliere Kohl era stata in grado di riunificare. 

Venne chiamato a risollevare le sorti, e in particolare la vendita dei biglietti, del successivo Mondiale americano e venne squalificato a causa dell’assunzione di una sostanza che, guarda caso, era considerata doping solo negli Stati Uniti. 

Cadde, risorse ed infine giacque, sopra il letto di morte sportiva dello stadio che lo aveva visto sbocciare e nel quale era voluto tornare per rendere omaggio alla sua gente e guardare negli occhi quanti avevano tentato in ogni modo di fargli del male. 

E come tutti i miti e gli eroi, anche “el Pibe de oro” è rimasto e rimarrà immortale, al punto che, come ha detto una volta Cantona, fra un secolo si parlerà ancora di lui, delle sue imprese, della sua lucida follia, dei suoi trionfi e della sua smisurata, fragile e malinconica magia. 

Come lui nessuno mai: sul campo e nella vita. Idolo, trascinatore, timoniere e vittima: di se stesso e di un sistema che, come sempre, anche e soprattutto nel suo caso non ha perdonato alcun guizzo di irriverenza. 

Peccato che nessuna squalifica, nessun ostacolo, nessuna cattiveria e nessun avversario siano mai riusciti a fermarlo: li ha sempre dribblati come tanti difensori inglesi, con lo sberleffo tipico della sua terra, quell’aria sorniona che presuppone sempre una fregatura e quell’angelica faccia da schiaffi che in Argentina è una componente essenziale se si aspira all’eternità.

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