Calcio. Napoli e Fiorentina: due splendide novantenni

È difficile immaginare due realtà più diverse di quella napoletana e di quella fiorentina: centro-nord e pieno sud; città vivace, levantina e piena di problemi la prima, città quasi svizzera la seconda; e anche a livello calcistico, a parte la comune ironia e la sagacia di due curve note per la loro sapida irriverenza, le divergenze fra l’universo partenopeo e quello che si snoda in riva all’Arno sono notevoli.

Fatto sta che ad accomunare queste due belle realtà del nostro calcio c’è una ricorrenza o, per meglio dire, un anniversario: entrambe, infatti, compiono novant’anni, il Napoli lo scorso 1° agosto, la Fiorentina il 26 prossimo, quando il campionato sarà iniziato da pochi giorni e i viola avranno già disputato la sfida, delicata e assai sentita, con la Juventus.

Che dire, dunque, di queste due società? 

Pensi al Napoli e ti viene in mente Maradona, certo, ma prima di lui il club azzurro è stato Jeppson, acquistato dall’allora presidente Achille Lauro per una cifra “monstre”: 105 milioni di lire, talmente tanti per la realtà povera e ingenua degli anni Cinquanta che, quando venne messo a terra, all’esordio, da un avversario, dagli spalti si udì una battuta fulminante: “È caduto ‘o Banco ‘e Napule!”. 

E come dimenticare il giovane Zoff in porta, il terzino Antonio Juliano, il duo d’attacco Sivori-Altafini, con quest’ultimo che il 6 aprile del ’75, juventino da qualche anno per spigolare gli ultimi brandelli di gloria di una carriera straordinaria, mise a segno il gol che, di fatto, consegnò lo scudetto ai bianconeri, ricevendo dai sempre caustici tifosi napoletani l’appellativo di “core ‘ngrato”. “El Cabezón”, al contrario, approdò al Napoli nel ’65, in quanto uno come lui, tutto genio, sregolatezza e follia, non poteva andare più d’accordo con un sergente di ferro, tutto “movimiento”, regole, disciplina e applicazione tattica, come Heriberto Herrera. Se fosse rimasto a Torino, Sivori avrebbe conquistato lo scudetto del ’67, vinto dalla “Juve socialdemocratica” di HH2 ai danni della Grande Inter dell’altro Herrera ormai a fine ciclo; tuttavia, al funambolo argentino, a differenza dei fuoriclasse attuali, non interessava solo vincere: per lui la libertà d’azione, la sfrontatezza, la possibilità di spaziare in lungo e in largo e di muoversi in mezzo al campo a piacimento, provocando gli avversari con i calzettoni costantemente abbassati, i dribbling irridenti e quell’aria di sfida che lo rendeva simile a un torero che esibisce la “muleta” davanti al toro all’inizio della corrida, le virtù che lo avevano reso Sivori e che lo avrebbero consegnato all’immortalità, insomma, venivano prima di ogni affermazione, di ogni trionfo e di ogni successo individuale o collettivo.

Ugualmente folle e ancora più bravo, tecnicamente inarrivabile e dotato di un carisma senza eguali è stato l’altro argentino che ha stregato il cuore dei napoletani: l’indimenticabile Diego Armando Maradona, artefice dei due scudetti e della Coppa UEFA dell’89 che ripagarono i partenopei di tante attese e di tante sofferenze, rendendoli finalmente protagonisti del panorama calcistico nazionale e mettendoli in condizione di affrontare a testa alta le compagini del nord, onuste di titoli e di ricchezze.

Erano gli anni Ottanta, gli anni tragici di un edonismo provinciale e pacchiano, gli anni dell’ostentazione del benessere, del riflusso, di un disincanto prossimo all’apatia e di una spensieratezza falsa e greve che altro non era che un rifiuto della passione e dell’impegno civile. Maradona, in un contesto del genere, costituì, a modo suo, un antidoto al degrado: perché comunista, perché anticonformista al midollo, perché sempre in lotta contro i potentati del calcio che, non a caso, ricambiavano il disprezzo e gliene hanno combinate di tutti i colori pur di sporcarne l’immagine e perché uomo e campione del popolo, capace di far sognare una città intera e di restituirle dignità e fiducia in se stessa. 

Erano gli anni in cui le provocazioni di chi auspicava che alla sorte dei napoletani provvedesse il Vesuvio facevano meno male perché in campo, poi, provvedeva quel mito vestito d’azzurro a ricacciare in gola agli avversari tutta la loro arroganza; erano gli anni dei Bruscolotti, dei Ferrara, dei Giordano e dei Careca, quando valeva comunque la pena di battersi per un ideale perché non era ancora diventato impossibile credere in qualcosa e coltivare un sogno o un’illusione. Erano state poste le basi perché lo diventasse in futuro, questo sì, ma nella Napoli di Maradona un minimo di giustizia, di onestà e di riscatto sociale erano ancora in auge, conditi dalla tipica scugnizzeria di quelle parti che rende tutto un po’ assurdo, ai limiti di una sorta di realismo magico sudamericano che ebbe, guarda caso, un argentino come cantore, interprete, artefice e punto di riferimento.

Poi il declino, la crisi del duo Corbelli-Ferlaino, il fallimento, il baratro della Serie C e ora la faticosa rinascita targata De Laurentis, tra alti e bassi, colpi di mercato, grandi intuizioni, dolorose cessioni e qualche fischio di troppo, ad opera di un pubblico e di un popolo che dovrebbero dire grazie ad un uomo né simpatico né semplice né, meno che mai, alla mano ma che, nonostante i suoi limiti e i suoi difetti, ha contribuito a restituire al calcio italiano lo splendore di una delle sue protagoniste.

Sorte analoga toccò, all’inizio del secolo, ai viola, retrocessi in C2 dopo il fallimento della vecchia società e presi per i capelli dai Della Valle, i quali, pur non essendo a loro volta dei mostri di simpatia, hanno avuto il merito di restituire a Firenze e a tutti noi una squadra che, oltre a veleggiare costantemente ai piani alti della classifica, regala buon calcio, numerose emozioni e talenti del calibro di Bernardeschi, ossia investimenti per il nostro futuro e gioia per gli occhi di quanti non si rassegnano al calcio dei miliardi e delle pay-tv o, quanto meno, non accettano che lo sport sia solo questo e che anche i sogni, le speranze, i valori e i sorrisi di chi va allo stadio per assistere a uno spettacolo agonistico siano comprabili e vendibili alla stregua di meri oggetti di consumo.

Perché la Fiorentina sono, innanzitutto, i suoi tifosi: da Montanelli a Franco Zeffirelli, in una città che vuol dire Leonardo, Michelangelo, il Rinascimento, l’arte, la cultura, la poesia, la bellezza, la storia, la politica, intesa nel senso di La Pira e Bargellini, lo sport, inteso nel senso di Artemio Franchi, cui non a caso è intitolato lo stadio, e che sul campo ha ammirato talenti come Antognoni, Rogora, Hamrin, Amarildo, “picchio” De Sisti, il dottor Socrates, venuto in Italia con lo scopo dichiarato di leggere Gramsci nella nostra lingua, e ancora Baggio, Rui Costa, Toldo, Batistuta e altri fuoriclasse dolenti e poco vittoriosi ma non per questo meno degni di stima o di rispetto.

Poi il buio della crisi, il tristissimo epilogo dell’esperienza Cecchi Gori, le cessioni illustri, la retrocessione in Serie B sul campo e in Serie C2 nei tribunali, l’obbligo di chiamarsi, anche se solo per un anno, Florentia Viola, prima della lenta risalita là dove la Viola merita di stare, dove meritano di stare i suoi tifosi, dove merita di stare una città che può essere sconfitta ma mai, per nessun motivo al mondo, umiliata. 

È venuto il tempo dei Riganò, pura classe operaia al servizio del gol, e dei Prandelli, col suo terzo tempo e la sua predicazione etica in un calcio sempre più amorale e spregiudicato, prima che la favola rinascesse definitivamente e ritrovssse una stabilità, un orgoglio, una dignità e una prospettiva che rendono strutturale questo rinascimento sportivo e questo risorgimento pallonaro per cuori forti, ricco di speranze e di talenti, individuati in giro per il mondo dal bravissimo Pantaleo Corvino e fatti fruttare dalla saggezza del pessoano Paulo Sosa. 

Perché solo un portoghese e un tecnico che prima lavorava in banca, si presenta in panchina in tuta, legge a più non posso e stima apertamente Landini, solo due figure così possono allenare in piazze tanto calde e delicate, nelle quali vincere è importante ma non è tutto, perché prima viene quel valore aggiunto che si chiama stupore e che troppi, in questo tempo senza ideali e senza bandiere, hanno perduto o preferito accantonare.

In loro, lasciatemelo dire, rivedo l’anima di Bruno Pesaola, detto il “Petisso”: un galantuomo d’altri tempi, purtroppo scomparso un anno fa all’età di ottantanove anni, “un napoletano nato all’estero”, come amava definirsi, il quale regalò ai partenopei anni importanti della sua carriera da calciatore e la prima Coppa Italia nel ’62 da allenatore (primo trofeo in assoluto del club), prima di donare, nel ’69, il secondo scudetto alla Fiorentina, entrando nella storia della squadra gigliata e dispensando lezioni di vita e di meraviglia ovunque gli sia stata data l’opportunità di esprimere la propria semplice filosofia, sviluppatasi nella Buenos Aires bohémien degli anni Venti e Trenta e affinatasi in un’Italia che usciva, fra mille lacrime, dall’abisso del fascismo e della guerra.

Auguri Napoli e Fiorentina! Voi il vostro scudetto, quello del cuore e dell’anima, lo avete già vinto e continuerete a vincerlo ogni anno; e non è detto che valga meno del tricolore ufficiale, in quanto “non è da questi particolari che si giudica un giocatore” né, tanto meno, una squadra.

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