Mazzola: l’eroe buono di una stagione perbene

Chissà come sarebbe stata la vita di Sandro Mazzola se la tragedia di Superga non avesse portato via per sempre suo papà Valentino, finalmente felice dopo aver affrontato un’incredibile serie di traversie. 

Non sappiamo se sarebbe diventato ugualmente un calciatore, forse sì ma chissà, né se sul campo avrebbe speso il medesimo impegno, la medesima abnegazione e quell’entusiasmo genuino che solo gli ha consentito di dimostrarsi pienamente all’altezza di un’eredità difficile da sopportare, al punto che, di fronte ad un altro carattere, si sarebbe rivelata probabilmente una barriera insormontabile.

Sandrino Mazzola ha sempre corso per sé e per il padre, per rendergli omaggio e giustizia, per affermarsi in prima persona ed affrancarsi dal cono d’ombra di essere il “figlio di”.

E quando il colonnello Puskás, al termine della finale di Coppa dei Campioni del ’64 disputata al Prater di Vienna, lo raggiunse per dirgli che con quella doppietta si era rivelato all’altezza di suo padre, penso che la carriera di Mazzola abbia subito una svolta decisiva.

Perché Puskás non era proprio l’ultimo arrivato e quel riconoscimento voleva dire essere entrato definitivamente nell’Olimpo dei campioni, là dove solo i grandi possono accedere, senza che nessuno gli avesse regalato nulla e anzi dovendo sfidare i suoi demoni interiori prima ancora degli avversari. 

Settantacinque anni, un’esistenza spesa interamente nel mondo del calcio, la celebre staffetta con Rivera inventata da Valcareggi ai Mondiali di Messico ’70, la gratitudine eterna che Sandro deve a quel sergente di ferro che fu Helenio Herrera e infine il ritiro, la nuova vita da dirigente, una carriera soddisfacente anche in quel ramo e, infine, il commento tecnico accanto a Marco Civoli nella vittoriosa trasferta tedesca del 2006 al seguito degli Azzurri di Lippi. 

Solo Jašin fu in grado di fermarlo, e Mazzola ne riconobbe l’immensità, oltre che la classe e la prontezza di riflessi del tutto fuori dal comune. 

Molti altri portieri invece capitolarono, quando ancora si giocava tutti insieme la domenica pomeriggio, quando il derby della Madonnina era ancora “Barbera e Champagne”, quando, pensando a Milano, venivano in mente il teatro di Strehler e la Comune di Dario Fo e anche un eroe buono, figlio della guerra e cresciuto col dolore interiore per un vuoto impossibile da colmare, poteva affermarsi ed entrare in Paradiso dalla porta principale. Era l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, una stagione sostanzialmente perbene, quando ancora si credeva in qualcosa, la Cina era meno vicina di adesso e le disfide pallonare terminavano spesso in trattoria, con Brera a fare da rapsodo e l’eterno duello fra Rocco ed Herrera sullo sfondo, mentre fuori calava la nebbia e anche con poco, o comunque con molto meno di oggi, ci si sentiva felici e, soprattutto, lo si era per davvero.

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