Milano: due sfumature dello stesso progetto con prospettiva nazionale

ROMA – “Se non ci passi da qualche anno, Milano non la riconosci. I simboli della città erano il Duomo, la Torre Velasca, il Pirellone. Adesso le riviste patinate mettono in copertina la Torre Unicredit, quella fatta solo di vetro e di acciaio con il pennone e la piazza rotonda ai suoi piedi.

Raccontano che è stato appena finito  Il Dritto, il grattacielo più alto d’Italia. Premiano il Bosco Verticale, una torre avvolta dagli alberi. Mostrano la passerella pedonale che collega piazza della Repubblica alla stazione di Porta Garibaldi e mentre la guardi ti chiedi se quel passaggio, in mezzo a una selva di erbacee perenni, non è per caso la famosa High Line di New York. È questa la nuova città che si prepara ad accogliere l’Expo. Un pezzo di mondo che viene a scoprire l’Italia. E quella scoperta parte da qui. Da Milano”. A parlare così, anzi a scrivere così, è il sindaco uscente Giuliano Pisapia, nel saggio “Milano città aperta. Una nuova idea di politica”, uscito lo scorso anno alla vigilia dell’Expo.

Già, l’Expo, coronamento di una prova di governo locale tra le migliori che il centrosinistra abbia offerto negli ultimi anni, senz’altro non paragonabile al disastro romano che abbiamo descritto nella puntata precedente, e trampolino di lancio del candidato alla successione di Pisapia: Giuseppe Sala, ex city manager della Moratti ma, soprattutto, commissario unico di un evento sul quale Renzi ha puntato come non mai per mettere in mostra l’efficienza e il respiro internazionale del suo governo.

Sala: un uomo concreto, un manager, tutt’altro che di sinistra ma abile a presentarsi come tale per vincere le primarie, arrivando addirittura ad esibire una maglietta rossa con l’effigie di “Che” Guevara, e a dirsi successivamente disponibile, anzi lieto, di celebrare le unioni civili per accattivarsi le simpatie di quella parte della sinistra fortemente incerta se sostenerlo, quanto meno al ballottaggio, o astenersi.

Furbo Sala, il quale ha incassato il pieno sostegno di Pisapia al termine di primarie del centrosinistra che, al netto delle consuete polemiche per il voto della comunità cinese, lo hanno visto prevalere su due ex assessori della giunta Pisapia quali Majorino (il più a sinistra nonché titolare delle Politiche sociali) e Francesca Balzani (ex parlamentare europeo nonché vicesindaco e assessore al Bilancio). Majorino è stato il primo a lanciarsi nella sfida, sin dall’estate; la Balzani è scesa in pista all’ultimo, proposta da Pisapia per legittimare e dare un senso a primarie dall’esito abbastanza scontato ma necessarie per contenere la rabbia di una sinistra in subbuglio e profondamente restia ad appoggiare un uomo che, come detto, ha poco o nulla a che spartire con la propria storia.

Il paradosso di Milano, infatti, è proprio questo: pur essendo stato il city manager della giunta Albertini e un uomo scelto personalmente da Berlusconi e sostenuto finanche da Salvini, Parisi sembra spesso molto più a sinistra del suo sfidante, il quale, nonostante l’impegno di Sinistra X Milano, che da quelle parti può contare su una percentuale di tutto rispetto, intorno al 7 per cento, appare il perfetto esponente del Partito della Nazione sognato da Renzi.

A Milano, a differenza di Roma, regna la calma piatta: il M5S, vittima delle proprie contraddizioni, di modalità di selezione dei candidati discutibili e della figuraccia patita con il ritiro della fragilissima Patrizia Bedori in favore del fragile Gianluca Corrado, di fatto, non esiste; la sinistra, costretta dall’errore di Civati di rimanere in panchina e con SEL divisa fra chi voleva andare comunque con il PD e chi voleva rompere in via definitiva, è stata obbligata ad affidarsi a un rispettabile veterano del consiglio comunale quale Basilio Rizzo, da sempre ostile sia alle giunte craxiane dei ruggenti anni Ottanta sia a quelle berlu-leghiste che hanno regnato sulla città fino al 2011, e dunque la vera sfida sarà tra i due manager in giacca e cravatta, il cui progetto di città è pressoché lo stesso con qualche sfumatura differente, giusto per caratterizzarsi un po’ in campagna elettorale.

Diciamo che se più che per le strade e nei mercati la campagna elettorale milanese di questa primavera 2016 si svolgesse a piazza Cordusio o in un qualche salotto della Milano bene, i toni e le modalità sarebbero le stesse. Tuttavia è incerta, in quanto, proprio la quiete assoluta della borghesia e dei grandi elettori cittadini fa sì che i due candidati si trovino ad un’incollatura l’uno dall’altro, tanto che nelle settimane in cui regnava ancora l’incertezza circa la data del voto pare che ci sia stato un aspro scontro fra i democratici romani e quelli milanesi: i primi desiderosi di aprire i seggi il più tardi possibile per consentire a Giachetti di recuperare sulla Raggi, i secondi desiderosi di aprirli quanto prima per impedire a Parisi di rimontare su Sala. La data del 5 giugno è stata, pertanto, un compromesso fra il 12 giugno chiesto dai romani e la fine di maggio chiesta dai milanesi, con Renzi e Alfano, che a Milano saranno avversari, costretti a trovare un punto d’incontro che andasse bene a entrambi.

Come detto nell’analisi dedicata a Roma, lo sconfitto fra Sala e Parisi potrebbe essere il federatore del centrodestra che verrà, nel caso in cui dovesse appannarsi la stella del Rottamatore di Rignano: Alfano l’ha capito e vuole contarsi, per capire quando potrebbe pesare il suo partitino in questo progetto. 

Per Berlusconi, invece, la riconquista di Milano è essenziale, se non altro per una questione di prestigio personale, dopo lo smacco subito cinque anni fa che segnò inevitabilmente il suo declino politico, assestando il primo colpo (il secondo, e decisivo, furono i referendum di due settimane dopo, prima della tempesta perfetta dello spread e dei tassi d’interesse oltre il livello di guardia) che avrebbe condotto in autunno al suo avvicendamento con Monti. 

Per Salvini, infine, questo candidato così moderato e così poco incline alla retorica della ruspa e del trumpismo imperante da quelle parti, è comunque un buon viatico per provare ad infliggere un colpo durissimo a Renzi.

Se il Premier dovesse perdere a Milano, difatti, nel PD succederebbe il finimondo: Roma e Napoli sono date per perse, la seconda, a dire il vero, non l’aveva vinta granché nemmeno Bersani (anche se, al ballottaggio, all’epoca, il PD aveva appoggiato De Magistris), ma Milano no; Milano costituisce il vero banco di prova del renzismo, con tanto di candidato nazareno voluto espressamente dal Presidente del Consiglio. Una sconfitta nella città dell’Expo, con il conseguente affondamento del suo uomo simbolo, vorrebbe dire un affondamento dell’intero progetto renziano: per questo il nostro, che si tiene distante anni luce da queste Amministrative e si occupa a tempo pieno solo del referendum d’autunno, a Milano ci sta mettendo eccome la faccia, essendo costretto a farlo.

Una battaglia mai così poco meneghina e mai così nazionale, dalla quale dipendono molti degli equilibri futuri del contesto politico italiano e le sorti di almeno due leader: Renzi e Salvini. 

Se dovesse perdere Parisi e la Meloni non dovesse arrivare nemmeno al ballottaggio, Salvini potrebbe riporre la ruspa in garage e dedicarsi tranquillamente all’attività di europarlamentare, rischiando anche il suo ruolo di segretario del Carroccio.

Se dovesse perdere Sala e Giachetti non dovesse arrivare nemmeno al ballottaggio, magari a vantaggio di Marchini, la leadership di Renzi sarebbe clamorosamente offuscata e declinante e, con ogni probabilità, il nostro dovrebbe abbandonare quanto meno la carica di segretario del partito, visto che la minoranza interna non esiterebbe un istante a chiedere il congresso anticipato e modifiche sostanziali dell’Italicum e della linea politica seguita sinora. 

“A Milano, come finisce, finisce bene”: per l’establishment di sicuro, per i leader politici che sotto la Madonnina si giocano tutto no. 

È una sfida senza partiti e senza grandi pulsioni ideologiche ma non per questo meno affascinante. E la poltrona, fidatevi, specie di questi tempi, è un collante più forte di qualunque visione ideale. Purtroppo, ma è così.

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