Rivolte a Wukan: arrestato muore in circostanze sospette

ROMA – E’ sfociata in un’aperta ribellione la lunga disputa tra agricoltori e funzionari locali, durante la quale gli abitanti del villaggio hanno cacciato i capi di governo, alzando barricate e brandendo armi rudimentali. E’ successo a Wukan, insediamento costiero della provincia del Guangdong, cuore del boom economico della Nuova Cina.

Il conflitto si era intensificato lunedì scorso in seguito alla morte in circostanze poco chiare di uno dei rappresentati scelti dai cittadini per negoziare con il partito comunista locale. Xue Jinbo- questo il nome dell’uomo -un macellaio 42enne messo in manette la settimana scorsa per le proteste che avevano già infiammato la zona lo scorso settembre- è deceduto mentre era ancora agli arresti. Sebbene le autorità abbiano giustificato la morte come un attacco di cuore, i parenti hanno dichiarato che il corpo presentava chiari segni di tortura, scriveva mercoledì il New York Times.

Ginocchia livide, narici incrostate di sangue e il pollice di una mano rotto; le dichiarazioni dei funzionari di pubblica sicurezza, secondo le quali Xue sarebbe morto a causa di alcune malattie cardiache di cui soffriva da tempo, non sembrano essere sufficienti. “Siamo stati nella camera funeraria un paio di volte, ma la polizia non ci ha voluto rilasciare il corpo” ha raccontato il genero del defunto.

Secondo quanto riferito dagli abitanti del posto, contattati telefonicamente dalla France Presse, tutte le connessioni Internet sono state rese inoperative, mentre mille agenti in assetto anti-sommossa presidiano il villaggio vietandone l’accesso.

Ancora una volta a fomentare il malcontento della popolazione è stata la questione delle espropriazioni forzate, specchio della corruzione dilagante tra i funzionari locali, e che sommata al crescente divario tra ricchi e poveri e ad un sistema giuridico lacunoso, rappresenta una delle tante gocce che hanno fatto traboccare un vaso ormai stracolmo.

Soltanto nello scorso anno sono stati ben 180 mila i cosiddetti “incidenti di massa”: scioperi, sit-in, manifestazioni e scontri violenti si sono estesi in tutto il Paese a macchia di leopardo, manifestando un aumento direttamente proporzionale all’iperbolico trend di crescita dell’economia nazionale. Tutt’altra storia rispetto alla metà degli anni ’90, quando gli episodi di disordine ammontavano a meno di 10.000.

“La gente non ha fede nelle procedure legali né nei media; quando subisce un torto si sente inerme” – ha affermato Martin K. Whyte, sociologo presso l’Università di Harvard.

Sebbene l’inquinamento incontrollato, i salari troppo bassi e i casi di abuso di potere da parte delle forze dell’ordine siano spesso motivo di proteste sociali, la questione relativa all’espropriazione della terra e agli sfratti rappresenta senza dubbio la piaga che affligge più dolorosamente la popolazione cinese.

Gli scontri di Wukan, d’altra parte evidenziano caratteristiche insolite quanto a durata e modalità di protesta. Tutto cominciò alla fine degli anni ’90, quando i funzionari iniziarono a confiscare i terreni agricoli per far posto a nuovi parchi industriali e progetti residenziali; oltre 400 gli ettari di terra sequestrati in circa un decennio, come raccontato dagli abitanti del villaggio. Poi lo scorso settembre la scintilla che ha innescato la miccia: le autorità stabilirono la vendita coatta di un allevamento di maiali della zona con lo scopo di far spazio ad abitazioni di lusso. Un business, questo, che se da una parte ha fruttato al governo 156 milioni di dollari, dall’altra ha spinto i cittadini di Wukan ad alzare la voce, avanzando la richiesta di compensazioni più elevate e pretendendo l’elezione democratica di nuovi funzionari.

Dopo due giorni di dimostrazioni, durante i quali la folla ha preso di mira i veicoli della polizia e gli edifici governativi, le forze dell’ordine si sono lasciate andare ad una serie di brutalità “eccessive”- come testimoniato dai manifestanti- per poi approdare ad un insolito armistizio. Licenziati due leader locali del partito, le autorità di Wukan hanno proposto di negoziare con un gruppo di rappresentanti di villaggio, scelti sulla base del consenso popolare. Xue Jinbo era uno di loro.

Poi, il dietro front del governo: “Le autorità sono tornate sui loro passi e ci hanno dichiarati illegali, Xue era il nostro rappresentate più attivo e capace”, ha raccontato uno dei membri della commissione temporanea locale.

Quello di Wukan non è che l’ultimo di una serie di episodi di proteste che da alcuni mesi a questa parte stanno scuotendo il sud del paese. Principali zone calde, le province del Zhejiang e del Guangdong, fucine del manifatturiero cinese. Proprio ad inizio mese, nella città di Anji alcuni operai di una fabbrica di mobili finita in bancarotta erano scesi in strada per chiedere di essere pagati. Un’altra manifestazione degenerata in atti di violenza: secondo diverse voci circolanti sul web, infatti, i dimostranti sarebbero in seguito stati accerchiati e picchiati dalla polizia locale.

Momenti di tensione anche a Shanghai dove, tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, i lavoratori di Hi-P International -azienda di Singapore che produce componenti elettronici per Apple, Ibm e Hp- hanno incrociato le braccia per diversi giorni consecutivi, opponendosi al trasferimento della fabbrica a Suzhou -distante un centinaio di chilometri- e protestando contro il licenziamento senza corrispettivo compenso. Dodici gli arrestati per aver ostacolato il passaggio dei camion addetti al trasporto della produzione giornaliera.

Quelli citati sono solo alcuni degli esempi più eclatanti di contestazioni nel settore produttivo. Scioperi e movimenti di rivolta surriscaldano l’area del delta del Fiume delle Perle, catalizzati dal malcontento per i bassi salari, per l’inflazione galoppante, per le condizioni di lavoro insostenibili, alimentati dall’indignazione verso la corruzione dilagante, dai sentimenti indipendentistici e dal progressivi allargamento della forbice dei redditi. Questi e molti altri fattori hanno trasformato il Paese di Mezzo in una gigantesca polveriera che, secondo molti, non tarderà ad esplodere.

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