Israele-Palestina: una guerra senza fine

ROMA – Ci eravamo illusi, ci avevamo sperato, confidavamo che, dopo l’incontro organizzato da papa Francesco lo scorso 8 giugno in Vaticano, fra Abu Mazen e Shimon Peres si fosse giunti a un’intesa storica in direzione della pace.

Ci avevamo creduto e siamo stati prontamente smentiti dalle vicende degli ultimi giorni, con l’assassinio di tre ragazzi israeliani ad opera degli estremisti palestinesi e la rappresaglia degli ultra-nazionalisti ebrei che lo scorso 1° luglio hanno rapito e bruciato vivo Mohammed Abu Khdeir, coetaneo dei giovani israeliani e, come loro, vittima inerme e innocente di un odio carsico che erode ogni tentativo di convivenza civile fra due popoli in guerra da oltre sessant’anni e vanifica la speranza di giungere all’unica soluzione possibile di questa crisi senza fine, ossia la costituzione e il riconoscimento reciproco di due stati sovrani.

Perché questo è il punto, eluso negli ultimi giorni per lasciar posto alle cronache dall’inferno della Striscia di Gaza: o si giungerà a breve alla nascita di due stati indipendenti, con confini ben delimitati e riconosciuti a livello internazionale, o la carneficina cui stiamo assistendo non potrà che aggravarsi e degenerare, con l’intensificarsi del lancio di razzi su Gerusalemme e Tel Aviv da parte di Hamas e l’invasione di Gaza da parte delle truppe di terra israeliane. In poche parole, una mattanza.

Il guaio è che, pur condividendo profondamente il messaggio di speranza lanciato ieri da David Grossman su “Repubblica”, siamo convinti che il grande scrittore israeliano abbia ragione quando afferma che “nella disperazione israeliana c’è anche uno strano elemento, una specie di gaiezza per l’imminente catastrofe, o per la delusione. Una sorta di gioia maligna nei confronti di chi ha visto deluse le proprie speranze. Una gioia particolarmente distorta perché, in fin dei conti, ci rallegriamo delle nostre stesse disgrazie”. Dopodiché, Grossman fa un riferimento temporale illuminante, riportando le lancette dell’orologio al 1993, l’anno degli Accordi di Oslo che valsero il Nobel a Rabin e Arafat e illusero, ancora una volta, il mondo del compimento del miracolo: quella pace che si infranse, il 4 novembre 1995, contro il muro dell’odio innalzato da Yigal Amir, un giovane estremista israeliano che, uccidendo Rabin, volle ribadire la linea dello scontro, della superiorità etnica ebraica e dell’inconciliabilità fra due popoli che, di fatto, condividono dal 1948 lo stesso lembo di terra. Anche allora un giovane, anche allora un ragazzo animato da ideali ultra-nazionalisti, anche allora il fiume carsico dell’odio che riaffiora, di tanto in tanto, e semina morte e distruzione in un territorio martoriato da divisioni e ferite, anche allora, ed è l’aspetto che rattrista maggiormente, un innovatore e un uomo di pace schiacciato dal macigno del rancore e della violenza che da decenni si annida nelle pieghe di due mondi contrapposti ma, in realtà, incredibilmente simili nelle proprie rivendicazioni: la possibilità di costruirsi un futuro e, soprattutto, di vivere in sicurezza, senza vedere le proprie abitazioni colpite dai razzi o distrutte dalle bombe, senza subire attentati e senza conoscere da vicino l’incubo del fosforo bianco.

Peccato che, come ha scritto Grossman e con buona pace di tutti i cantori della post-ideologia di casa nostra, destra e sinistra esistano ancora e abbiano ancora un senso anche in Israele, dove però, proprio come da noi, chiunque non sia disposto a rinunciare a una prospettiva di pace e di stabilità reciproca viene additato, nella migliore delle ipotesi, come “un ingenuo o un visionario delirante” e, nella peggiore, come “un traditore che, irretendo gli israeliani con miraggi, ne indebolisce la capacità di resistenza”.

“In questo senso – spiega Grossman – la destra ha vinto. È riuscita a instillare la sua pessimistica visione del mondo nella maggior parte degli israeliani. E si potrebbe dire che non solo ha sconfitto la sinistra, ma che ha sconfitto Israele. Non tanto perché questo suo modo di vedere le cose spinge lo stato ebraico a una condizione di paralisi su un terreno tanto cruciale per lui, dove servirebbero audacia e flessibilità, ma perché ha sconfitto quello che un tempo si sarebbe potuto definire lo <<spirito israeliano>>: quella scintilla, quella capacità di rinascere a dispetto di tutto. Ha annientato il nostro coraggio e la nostra speranza”.

Già, il coraggio, la speranza, una visione globale del mondo e dei suoi drammi, una capacità di affrontarli secondo un’ottica diversa che ponga nuovamente al centro il concetto di umanità: leggendo Grossman, vien da chiedersi quanto questo conflitto sia israelo-palestinese e quanto riguardi, invece, tutti noi.

Perché quell’odio, quella barbarie, quei giovani disposti a uccidere e ad essere uccisi in nome di ideali folli e disumani, in realtà, li abbiamo armati noi, non solo nella Striscia di Gaza, rendendoli vittime della nostra oppressione e delle nostre promesse irrealizzabili, del nostro modello sociale e di sviluppo completamente sbagliato e della nostra proterva presunzione di esportarlo ovunque. Per questo, riprendendo il fortissimo messaggio di Primo Levi, “noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case” dobbiamo domandarci se questi sono ancora uomini e sentirci fino in fondo colpevoli di una strage verso la quale, con l’ipocrisia che ci è propria, abbiamo subito manifestato falsi sentimenti di indignazione e di vergogna.

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