Francesco Totti e la bellezza di un addio

Nell’anno in cui celebriamo i settanta di Zeman e la straordinaria salvezza del Crotone e nella settimana in cui abbiamo detto addio a Nicky Hayden e abbracciato il vincitore della centesima edizione del Giro d’Italia, l’olandese Tom Dumoulin, in un momento così intenso e ricco di significati, la notizia dell’addio al calcio di Francesco Totti ha rubato tutta la scena. C’era da aspettarselo.

Totti, infatti, non è stato soltanto il simbolo di una squadra e di una città ma un’autentica forma di opposizione morale. Totti è stato il no al calcio moderno, ai suoi eccessi, alla sua mancanza di etica, alle sue esagerazioni e ai suoi compensi tanto astronomici quanto, il più delle volte, immeritati. 

Totti, capitano e anima della Roma, è stato un campione universale: uno che avrebbe potuto giocare e vincere ovunque, guadagnare il triplo di ciò che ha guadagnato, vincere qualche Pallone d’oro e qualche Champions League e che, invece, ha scelto di indossare una sola maglia, di amarla finanche più di quella della Nazionale e di dedicare la carriera e la propria stessa vita alla passione che lo accompagna sin da bambino. 

Non a caso, ne abbiamo visti tanti di campioni appendere gli scarpini al chiodo, abbiamo visto lo Stadium di Torino piangere per Del Piero e il Meazza di Milano inchinarsi dinanzi alla grandezza di Javier Zanetti, il capitano del leggendario triplete nerazzurro, ma in nessun catino pallonaro avevamo mai assistito a immagini ed emozioni come quelle che ci ha regalato ieri l’Olimpico, per il semplice motivo che Roma è una città unica nel suo genere. 

E ora che questa meravigliosa, dolente, fragile e addormentata capitale si vede priva anche del suo simbolo più illustre, ora che alle paure dell’uomo Totti si mescolano quelle di una generazione di tifosi e di appassionati che con lui è cresciuta e diventata matura, ora che abbiamo la certezza che la gioventù è davvero finita, ora, in questa Roma intristita da troppe sconfitte e troppe note di demerito, avvertiamo la sensazione profonda di una solitudine che non siamo capaci di affrontare. 

Da juventino, certamente ho sofferto per l’addio di Del Piero; tuttavia, in quel momento, sapevo che c’erano stati Sivori e Platini, che c’era stato Zidane e che qualcun altro in grado di farsi carico della sua eredità sarebbe arrivato presto, e infatti prima mi sono stropicciato gli occhi al cospetto di Tevez e ora mi sono innamorato di Paulo Dybala, ossia il Messi del prossimo decennio.

A Roma è diverso perché ciascun romanista che ieri ha versato una lacrima sa che di buoni giocatori in maglia giallorossa ne vedrà ancora molti ma di Totti ce ne è stato uno solo. Ogni romanista sa, in cuor suo, che nessun fuoriclasse contemporaneo rinuncerebbe ai milioni di Real e Barcellona per rimanere nella squadra che lo ha visto sbocciare e nella città che ama. Ogni romanista sa che un Totti di oggi se ne andrebbe nell’arco di una-due stagioni: da qui l’amore, il rimpianto, la struggente meraviglia di un addio unico nel suo genere. 

Quella di ieri sera è stata davvero una grande bellezza ma non in senso negativo bensì nella sua accezione più pura e più vera: una città pigra, indolente, a tratti addirittura fastidiosa ha saputo essere più forte dei suoi difetti, ha saputo unirsi, ha saputo dare il meglio di sé fino a sfiorare l’epica, in un addio che è stato tragico e indimenticabile al tempo stesso.

E Totti, da par suo, ha confessato pubblicamente tutta la propria gratitudine, tutta la propria fragilità umana, quell’ingenuità connaturata al suo modo di essere, quel rifiuto del cinismo che avvelena il nostro tempo, quel suo essere anacronistico che a molti fa storcere la bocca ma che, in fondo, è ciò che ha reso nobile persino quest’ultimo, malinconico campionato, vissuto per lo più ai margini della squadra e fra mille incomprensioni con la società.

Totti è stato immenso perché, come detto, ha costituito una forma di opposizione alla barbarie del presente, al punto che ho pensato spesso a quanto un personaggio del genere sarebbe potuto piacere a Pasolini, con i suoi tratti veraci, alcune caratteristiche tipiche di Accattone, quella romanità genuina e un po’ borgatara che fa sempre simpatia, quegli atteggiamenti da anti-divo e quella capacità di mantenersi umile nonostante si sia diventati un’icona. 

Totti è esso stesso una favola, in quanto ci ha mostrato, forse persino involontariamente ma a tratti con profonda consapevolezza, la diversità possibile di chi non si rassegna ai cliché di una stagione tra le peggiori della nostra storia. 

E in quel catino ribollente d’amore, di passione, di strazio, di poesia, in quella mescolanza di sentimenti in cui non c’era nulla di studiato e il cuore prevaleva nettamente sulla testa e sulla programmazione, in quel momento è come se Francesco fosse tornato per la prima volta in campo, provando dentro di sé una paura diversa e non meno da pelle d’oca. 

Pochi miti hanno trovato il tempo di imparare ad essere anche uomini: lui ci è riuscito e la famiglia che lo ha accompagnato in uno dei passaggi più importanti della sua vita ne è la dimostrazione. 

Da avversario, mi mancheranno soprattutto tre cose: la sua classe, la sua diversità e la sua purezza d’animo. Da appassionato di calcio e da sportivo, posso dire di aver visto quasi tutti i suoi gol, di averlo cominciato ad applaudire quando andavo alle elementari e di aver smesso dopo l’università. È durato, dunque, una generazione ed è stato il manifesto vivente di un’altra idea di mondo, con i suoi limiti, i suoi difetti e il cuore sconfinato di una persona cui non ha mai pesato l’essere perbene. 

Buon volo Francesco, qualunque sarà d’ora in poi la tua strada.

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