La COP30 si apre oggi, 10 novembre 2025, a Belém, in Brasile, nel cuore dell’Amazzonia. È un appuntamento che avrebbe dovuto rappresentare una svolta storica, ma arriva in un contesto segnato da assenze pesanti, promesse disattese e un’attenzione pubblica sempre più tiepida.
Mentre la crisi climatica accelera, la politica mondiale sembra rallentare.
Un vertice che parte in salita
La COP30 nasce sotto il segno delle contraddizioni: da una parte il richiamo simbolico dell’Amazzonia, polmone del pianeta e luogo-simbolo della biodiversità; dall’altra, un’Europa in difficoltà, gli Stati Uniti che si defilano dal Green Deal, e una Cina che oscilla tra ambizioni e dipendenze.
I temi in agenda sono cruciali — finanza climatica, riduzione delle emissioni, giustizia ambientale — ma la sensazione è che, ancora una volta, si fatichi a passare dalle parole ai fatti.
La mancanza di entusiasmo mediatico e politico riflette un problema più profondo: la crisi climatica viene percepita come cronica, non come emergenza. I giornali ne parlano poco, e quando lo fanno, lo fanno in modo tiepido, quasi per obbligo.
Il ruolo controverso della Cina
La Cina si presenta come protagonista indiscussa ma anche come il grande equivoco della transizione verde.
Da un lato, Pechino guida il mondo nelle tecnologie rinnovabili e ha promesso un picco delle emissioni entro il 2030 e la neutralità climatica entro il 2060. Dall’altro, continua a costruire nuove centrali a carbone, mantenendo una dipendenza energetica che contraddice la sua stessa narrativa.
È la classica doppia faccia della potenza globale: leader climatico a parole, gigante fossile nei fatti.
Eppure, nella debolezza di altri, la Cina potrebbe ritrovarsi a giocare un ruolo decisivo: se scegliesse davvero di guidare la transizione, non solo industriale ma etica, il mondo intero ne trarrebbe beneficio.
Gli Stati Uniti si tirano indietro: cosa cambia
L’assenza degli Stati Uniti a Belém segna un punto di rottura politico e simbolico.
Washington ha scelto di non inviare delegazioni di alto livello, prendendo di fatto le distanze dai negoziati internazionali. Una decisione che molti osservatori considerano una rinuncia alla leadership globale sul clima.
Le conseguenze sono immediate:
- Senza il peso diplomatico e tecnologico degli USA, le trattative si indeboliscono.
- Gli equilibri geopolitici si spostano verso la Cina, con il rischio di un clima negoziale più frammentato.
- L’abbandono del Green Deal da parte americana crea un effetto domino: legittima il rinvio delle azioni concrete anche in altri Paesi industrializzati.
In sostanza, il mondo avanza senza una guida comune, e il cambiamento climatico non aspetta.
Il silenzio dei media e la stanchezza del pubblico
Un’altra grande assente alla COP30 è l’informazione.
Nonostante la gravità della situazione, l’attenzione mediatica è bassa. Le prime pagine parlano di economia, politica interna, conflitti geopolitici, ma il clima resta una notizia di contorno.
Questo silenzio non è casuale: è il risultato di anni di retorica senza risultati, che hanno generato diffidenza e rassegnazione.
Molti cittadini si chiedono a cosa servano queste conferenze, se ogni anno si ripetono gli stessi slogan. Ma dimenticano che senza pressione pubblica, i governi si muovono ancora più lentamente.
Ecco perché la comunicazione ambientale oggi è parte della battaglia: rendere il clima un tema sentito, non un rituale diplomatico.
L’urgenza ambientalista: fermare le politiche cieche
La posizione degli ambientalisti è chiara: non c’è più tempo per tergiversare.
L’aumento della temperatura globale, le alluvioni, gli incendi, la perdita di biodiversità — tutto grida urgenza.
Serve un cambio di passo radicale:
- Bloccare nuovi investimenti nei combustibili fossili;
- Finanziare la transizione nei Paesi più vulnerabili;
- Costruire una giustizia climatica reale, in cui chi inquina paga e chi subisce riceve supporto.
Ogni rinvio è un atto di irresponsabilità verso le generazioni future.
Una COP che deve tornare a contare
La COP30 dovrebbe essere il momento della svolta, ma rischia di diventare l’ennesimo esercizio di diplomazia ecologica.
Senza coraggio politico, senza impegni vincolanti, senza una mobilitazione civile, le promesse resteranno parole sospese.
La sfida, oggi, non è solo ridurre la CO₂: è ricostruire la fiducia nel cambiamento possibile.
Perché il clima non aspetta, e la terra — come ricorda la voce degli ambientalisti — è una sola, fragile e irripetibile.


