Il M5S e la sfida della maturità

ROMA – Tralasciando il Codice Casaleggio, con annesse multe esorbitanti per gli eventuali voltagabbana che nessun tribunale riconoscerà mai come valide, in quanto palesemente in contrasto con l’articolo 67 della Costituzione, tralasciando insomma la propaganda populista che caratterizza le punte di diamante dell’universo stellino, riprendiamo il discorso sui pregi e i difetti di un movimento che, da qualunque angolo visuale lo si osservi, costituisce oggi la principale alternativa al nascente Partito della Nazione di Renzi e Alfano. 

Senza dubbio, nell’ultimo anno, sono cresciuti e migliorati molto, esibendo una discreta classe dirigente, combattendo battaglie giuste e condivisibili, restituendo voce a una generazione poco rappresentata e quasi per nulla valorizzata (prova ne sia il recente scontro fra la ministra Giannini e la ricercatrice Roberta D’Alessandro) e confermando un’onestà di fondo che, per quanto non sufficiente, è comunque una condizione imprescindibile per occuparsi della cosa pubblica, specie in una fase nella quale le altre forze politiche sono squassate da continui scandali e da vicende tutt’altro che limpide come le dimissioni forzate del sindaco Marino o il caos che sta avvenendo in tutto il Meridione per quanto concerne il tesseramento di pezzi cospicui della fu destra berlusconiana al fu PD, laggiù ampiamente trasformatosi nel Partito di Renzi.

Non c’è dubbio, dunque, che in assenza di una sinistra all’altezza, scossa a sua volta da faide interne, litigi incomprensibili, candidature che stentano ad arrivare, manie di protagonismo e ataviche paure di mettersi in gioco, non c’è dubbio, dicevamo, che nel medio periodo chiunque non voglia piegarsi alla logica del “non ci sono alternative”, al liberismo selvaggio mitigato con qualche gentile concessione qua e là, al mantra della governabilità ad ogni costo e al luogo comune delle riforme attese da venti, trenta, addirittura settant’anni nel caso dello smantellamento della Costituzione, debba guardare per forza a questo singolare macrocosmo nato dalla liquefazione del sistema dei partiti tradizionali e da una crisi istituzionale senza precedenti che è progredita di pari passo con quella economica e sociale.

E qui iniziano i problemi perché la sensazione che affiora nella mente di noi osservatori benevoli ma caratterialmente critici è che il M5S avrebbe alcune ottime risorse, personalità già adesso in grado di assumere la guida del Paese e di condurlo verso lidi migliori di quelli in cui si trova attualmente, solo che le tiene ben nascoste, stando attento a non mandarle in nessuna trasmissione televisiva, a non dar loro la visibilità che meriterebbero, a scegliere dei capigruppo spesso neutri, privi di particolare grinta e incisività, e a candidare nelle città figure per lo più anonime e prive di una marcata personalità (eccetto Chiara Appendino a Torino), onde evitare che possano prendere una qualche iniziativa autonoma. Ma perché tutto questo masochismo? Perché i vertici del M5S sanno che Renzi comincia ad essere in affanno e che la crisi irreversibile del berlusconismo ha spalancato un vuoto che né una Forza Italia ridotta ai minimi termini né una Lega a trazione lepenista né i Fratelli d’Italia della Meloni sono in grado di colmare, perché sanno che il Partito Democratico, pur avendo subito un’irreversibile mutazione genetica, è ancora considerato da una parte consistente dell’opinione pubblica un partito di centrosinistra e perché l’Area Popolare di Alfano e Casini, al pari dell’ALA di Verdini, rappresenta né più e né meno che un esperimento nato all’interno del laboratorio parlamentare per evitare la prematura interruzione della legislatura, senza alcun radicamento sul territorio se non in alcune aree del Meridione dove la politica ha ancora una connotazione quasi feudale. Sanno, insomma, che buona parte del proprio elettorato potrebbe affluire da destra e cercano in ogni modo di nasconderle la propria effettiva natura: dapprima concedendo un’ipocrita liberta di coscienza, cioè lavandosi pilatescamente le mani, sulle unioni civili, poi mettendo in naftalina tutta l’ala sinistra dei propri gruppi parlamentari, infine spedendo in tutti i talk show quei portavoce che si prestano a reggere il gioco del movimento anti-partitico e post-ideologico, ripetendo quasi a memoria le formule magiche che fecero la fortuna dei 5 Stelle nel 2013, quando però la Lega era ridotta al lumicino e gran parte degli elettori di sinistra erano ancora disposti a dare una possibilità alla coalizione Italia Bene Comune di Bersani e Vendola. 

Ciò che sfugge al guru e ai rappresentanti istituzionali che in lui si riconoscono è che è vero che a destra si è aperta una prateria ma è altrettanto vero che si è aperta pure a sinistra, con una differenza sostanziale: la Lega oggi veleggia intorno al 15 per cento e competere con Salvini sul piano delle trovate populiste è pressoché impossibile per chiunque; l’elettorato di destra, quando non sa per chi votare, tendenzialmente non sperimenta nuovi soggetti bensì si astiene; una buona dose del blocco sociale che fu berlusconiano sta confluendo nel PD e nei suoi partiti satelliti (NCD, UDC e pezzi di destra locale) e la pur cospicua mole di voti che si sposterà dalla destra ai 5 Stelle non sarà mai in grado di competere con quella che è già riuscito a recuperare Salvini, pur non offrendo alcuna prospettiva di governo, e con quella che ha incamerato Renzi fondando, di fatto, la Coalizione della Nazione.

E così, mentendo alla propria anima e alla propria stessa natura, tradendo le aspettative dei milioni di giovani che continuano a guardarli con stima e fiducia, dissipando il capitale di voti che avevano guadagnato ad opera dei delusi dalla svolta piddina e facendo inferocire i propri stessi gruppi parlamentari che, non a caso, sulle unioni civili, così come sulla scelta di schierarsi in Europa con Farage, hanno espresso notevoli malumori, commettendo questa serie di errori in sequenza, i 5 Stelle stanno perdendo una quantità di voti testimoniata da tutti i sondaggi che, infatti, li danno da tempo in forte calo. E la ragione è semplice: la destra dura e pura l’ha ricostruita, sia pur malamente, Salvini e non è detto che sia destinata a fallire anche a livello locale (in Liguria, per dire, ebbe la meglio), la destra finanziaria e sostenuta dai poteri forti l’ha costituita Renzi mentre la sinistra, che pure c’è e ha ancora una sua voglia di riscatto, avrebbe solo bisogno, per tornare competitiva, di ricostruirsi in una prospettiva moderna e in sintonia con il vento innovativo dei “Millennials” che spira dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti ma anche da una Spagna dove Podemos ha superato ampiamente la prova della maturità, dimostrando di poter essere una compiuta forza di governo. Il M5S, al contrario, rischia di restare vittima dei suoi tabù, dei suoi dogmi, delle assurde regole contenute nel “non statuto”, delle esagerazioni dei suoi vertici e del suo desiderio di purificazione di un sistema che merita sì di essere ripulito ma non attraverso una visione robespierriana della politica e della realtà, finendo con lo scadere nell’ambiguità di un ibrido che, a differenza del carro armato renziano, non essendo al governo, non ha né soldi da elargire né poltrone da offrire né il potere vero, economico e mediatico, dalla sua. In poche parole, rischia di rivelarsi una straordinaria occasione perduta: perché non evitare finché si è in tempo?

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