Panahi. Appello del cinema italiano per liberarlo

ROMA – «Bisogna impedire a quel cervello di funzionare». Valeva per Antonio Gramsci nel 1928, vale oggi per i due registi iraniani Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, condannati dal regime di Teheran al carcere e al divieto di esercitare la loro professione.

Per chiedere la loro liberazione e la libertà di espressione in Iran il cinema italiano si è mobilitato aderendo all’iniziativa organizzata dalle associazioni Cinecittà Luce e Articolo 21 al cinema Barberini di Roma. Bernardo Bertolucci, Stefania Sandrelli, Marco Müller, Ugo Gregoretti sono solo alcuni degli artisti che hanno risposto all’appello, assieme a diversi politici ed esponenti della società civile.

Una serata di denuncia, ma anche di proposte come quella rivolta dal cineasta iraniano Babak Payami ai registi italiani per inserire nei titoli di coda una frase dedicata a Panahi e Rasoulof.  «Mi hanno privato della possibilità di esprimere il mio pensiero e scrivere per vent’anni, ma non possono impedirmi di sognare che, fra vent’anni, l’inquisizione e le intimidazioni lasceranno il posto alla libertà; spero che quando tornerò libero, potrò viaggiare in un mondo senza barriere geografiche, etniche e ideologiche, un mondo in cui la gente conviva liberamente e in pace». Così scrive Panahi, condannato a 6 anni di reclusione e 20 di interdizione dalla professione, in una lettera letta dal maestro Bertolucci.  Togliere la facoltà di vedere, di pensare, di raccontare a un grande del cinema come Panahi è certamente più doloroso del carcere. «È la lapidazione delle idee», come l’ha definita Giuseppe Giulietti di Articolo 21. Quelle idee che da sempre animano il popolo iraniano, con la sua grande e variegata cultura, ormai piegata e messa a tacere dal regime degli Ayatollah.

L’Iran della repressione ma anche l’Iran che non si conforma e cerca di ritagliarsi i suoi piccoli spazi di libertà nella vita quotidiana. È lo spaccato di un Paese tanto ricco quanto complesso quello che Panahi ci regala nei suoi film, storie di vita quasi pasoliniane come quelle raccontate ne “Il Cerchio”, il lungometraggio Leone d’oro al Festival di Venezia 2000, che per l’occasione è stato proiettato al Barberini: dietro al movimento irregolare della macchina da presa  i volti vissuti e le paure di otto donne emarginate e reiette, alle prese con una società in cui non c’è posto per loro. Uscite dal carcere, tre ragazze tentano di rifarsi una vita ma incontreranno altrettante donne perdute tra le vie di Teheran. La ragazza madre che abbandona la figlia, la giovane senza documenti che non può viaggiare o dormire in albergo, la prostituta irriverente. Le inquadrature strette sui personaggi rendono l’idea di un ambiente claustrofobico che, mantenendo alto l’orizzonte d’attesa, ben rappresenta la tensione e l’ angoscia in cui vivono le donne iraniane. È una violenza psicologica costante, non meno dolorosa di quella fisica, raccontata senza rinunciare a un tocco di ironia e realismo, che distanzia i film di Panahi dal classico atto di denuncia rendendoli fruibili al grande pubblico. Un crudele destino accomuna le protagoniste, un destino al femminile da cui è impossibile uscire quando il cerchio si chiude

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