Parte terza – La Marianna Ucrìa di Dacia Maraini e Raffaella Azim. Un esempio di vino buono
ROMA -Il 2 agosto, ai Giardini, è andato in scena La lunga vita di Marianna Ucrìa una riduzione teatrale, monologica, del romanzo di Dacia Maraini, Campiello nel 1990. Interprete principale ne è stata Raffaella Azim, affiancata da Francesca Conte, diretta da Daniela Ardini. Il 2 agosto, sì, quindi sono passati alcuni giorni, utili per pensare. Nel frattempo il lavoro ha incassato le recensioni positive dei critici Franco Cordelli e Marcantonio Lucidi.
Premessa-confessione. Un sentimento di amicizia mi lega tanto a Raffaella quanto a Dacia, per cui mi sono recato alla Filarmonica preoccupato per entrambe.
Avevo visto la Azim recitare questo stesso testo a Ostia, in una prima versione già molto persuasiva, ma non ero certo che la riduzione audace avrebbe convinto la Maraini. A teatro Marianna c’era già stata, quando, nel 1991, Pippo Baudo chiese all’autrice una drammaturgia, che Lamberto Puggelli mise in scena con 16 attori. Però è cosa ben diversa realizzare uno spettacolo corale, con una ricostruzione filologica di scene e costumi, e condensare invece tutte le voci, compresa quella muta di Marianna, in un solo corpo, per quanto efficace sulla scena come quello della Azim.
Si aggiunga il fatto che Dacia, come sempre in anticipo, è corsa a prendersi un buon posto, mentre io, attardatomi sul couscous, sono rimasto qualche fila più indietro, senza così poter scambiare con lei, in tempo reale, quelle recensioni oftalmiche con cui comunichiamo durante gli spettacoli.
Fine dell’autobiografismo, inizio della recensione.
Se si vuole mettere in scena un romanzo, ancor più un capolavoro riconosciuto della letteratura, bisogna essere certi di poter aggiungere qualcosa rispetto a quello che la lettura solitaria offrirebbe. Un gesto che spiega un sentimento più delle parole, un’immagine capace di penetrare le pagine silenziose e di farle accadere nell’eterno presente del palcoscenico. Si può portare a teatro una grande storia, una metafora entrata nell’orizzonte collettivo, sapendo, però, che non si posseggono i mezzi del cinema, ma “solo” voci e corpi, pochi oggetti, un pubblico disposto a seguire, se ben guidato, ad abbandonarsi alle convenzioni del linguaggio scenico. Serve, in buona sostanza, molta consapevolezza. Raffaella Azim e Daniela Ardini hanno dimostrato di averne.
Il palco dei Solisti è una semplice struttura con una graticcia senza pretese, ma gode, dietro di sé, del fondale di una natura rigogliosa, che non si può che assecondare con la semplicità dell’allestimento. In scena solo cinque microfoni ad asta, una metafisica scultura sferica in legno, un mannequin sopra un piccola pedana, un baule. Tutto qui. Ed è proprio così, con una breve lista di suppellettili che si può raccontare al meglio la lunga vita di Marianna Ucrìa. Una nobildonna siciliana del Settecento, sordomuta, che viene data in sposa al vecchio duca-zio. La sua menomazione, si scoprirà dopo, è la conseguenza dello stupro compiuto su di lei, quando era una bambina, dallo stesso duca-zio, cui viene data in moglie. L’amato padre combina infatti il matrimonio per due ragioni: evitare lo scandalo, semplificare la sorte di una ragazza ‘disonorata’ e scongiurare il manicomio a cui erano destinati i sordomuti.
La verità sulla propria vita, l’emancipazione intellettuale, la riscoperta della propria femminilità, al di là della maternità, sono l’asse portante del racconto, attraversato poi da personaggi familiari come la nonna Giuseppa, serve come Fila, Peppinedda, amori come Saro, fratello di Fila, e il pretore Camaleo. Di tutte queste istanze si fa carico Raffaella Azim, pur restando sempre e soltanto Marianna.
L’attrice interpreta la nobildonna, all’inizio indossa un abito del Settecento, scelto da Luigi Piccolo e rifatto a mano dalla sartoria Farani. Entra, in questi panni, nel pieno del suo ruolo sociale, complesso, prezioso. In seguito, però, con l’aiuto della serva Fila (Francesca Conte), l’abito va sul mannequin e veste così l’intera scena, diventa il simbolo della sovrastruttura siciliana, mentre Marianna, sottabito di lino e corpetto, può iniziare il suo intimo viaggio.
E i costumi sono simbolici e importanti in questo lavoro. Alla fine la Azim indosserà l’Andrienne, nella sua variante à plis Watteau, un abito citato dalla Maraini la cui moda, lanciata dalla Corte di Parigi, si era diffusa nel Settecento a Palermo. Nel 1703 l’attrice Therèse Dancourt l’aveva indossato nell’Andrienne , appunto, del drammaturgo Baron, interpretava, in questa commedia ispirata all’Andria di Terenzio, il ruolo di una donna incinta che doveva nascondere la sua gravidanza.
Lo spettacolo ha molti punti di forza.
Per prima cosa la drammaturgia sapiente, che isola i nuclei centrali del romanzo e, senza tradire mai il testo originario, li dispone per offrire con chiarezza l’intreccio del romanzo.
Le parole della Maraini, poi, risultano tanto più vere e credibili nell’emissione ora estatica, ora intimistica, ora persino espressionistica della Azim, in un variare di modulazioni della voce che rendono il corpo senza età di quest’attrice eternamente giovane, eternamente bella, un fulcro di energie e di trame perfettamente controllate. Uno spettacolo recitato sempre al secondo grado, quello, concordo con Lucidi, antinaturalistico, e dunque metaforico, che le permette di essere, bambina e donna, sé e altro.
Una scelta che sembra riflettere anche molti impianti drammaturgici della Maraini, ispirati al Teatro Nō, in cui i personaggi della scrittrice si raccontano dopo la morte, interno ed esterno a un tempo, sguardo e oggetto. Ma questo saper essere al di fuori non significa, qui, essere straniati in senso brechtiano, quanto piuttosto dominare il racconto lucidamente, partecipandovi come chi, avendo vissuto, risente e rivive fino a essere nuovamente. Una prova non facile, da grande interprete. Raffaella lo è.
Troppo spesso si dimentica, d’altronde, la storia delle attrici, una storia che nel caso della Azim comprende, tra gli altri, Aldo Trionfo, Dario Fo e soprattutto Franco Parenti. Né si può ignorare, in Raffaella, l’intelligenza e il raro pregio dell’umiltà, che l’ha portata a rivolgersi a una bravissima regista e a sottoporsi a una severa direzione delle intenzioni espressive, invece di scrivere sulla locandina, come troppo spesso avviene ultimamente: pensato, sognato, scritto, diretto, interpretato, trasumanato e recensito dall’attore Pinco Pallo.
E venendo proprio ad aspetti di regia: i cinque microfoni, visione quasi aberrante, sono invece una delle intuizioni più potenti della Ardini. Essi sono prolungamenti esterni della voce, anzi, protesi vocali, a differenza di un archetto, un microfono pulce, che si confonde con il corpo, essi sono, per l’attrice, altro da sé. Diventano come il blocchetto di fogli, pur presente, che la sordomuta utilizza per comunicare con il mondo, sono icone del suo handicap, del suo limite, ma anche le valvole del suo pensiero. Allo stesso tempo rappresentano un perimetro entro cui agire, riscaldano la scena e costringono l’attrice a uno spostamento che non concede allo spettacolo stasi, lentezze, crolli del ritmo.
Calibrata anche la scelta delle musiche, composizioni di Luciano Berio, come grida laceranti, decompressione di emozioni e sentimenti trattenuti dalle corde mute di Marianna. Musiche che non servono, come vogliono alcuni registi, a strappare l’applauso, a portare l’emozione al parossismo, ma che entrano in perfetta consonanza con l’interprete e creano scansioni funzionali per lo spettatore. La felice chiarezza non è mai schematica tuttavia, perché l’impianto della messa in scena è fluido, una struttura non priva di anima.
Infine, la presenza di un’interprete LIS permette a spettatori sordomuti di godere dello spettacolo e inoltre moltiplica e approfondisce i significati, in un gioco di specchi capace di rendere al meglio l’idea dell’afonia di Marianna, che la Azim, in alcuni momenti, nello scambio con Fila, stilizza, confermando il valore simbolico delle sue scelte interpretative.
La Marianna di Raffaella è archetipo, metafora, spazio umano in cui si compie l’ardua speranza di ciascuno, il tentativo di dare parola ai propri silenzi.
E, come era auspicabile, lo spettacolo ha incontrato il favore anche di Dacia, che, al termine dell’esecuzione, ha dichiarato pubblicamente la sua gratitudine per una messa in scena così felice.
Questo è uno degli spettacoli – ma ce ne sono stati e ce ne saranno altri – che confermano come I solisti del teatro sia uno degli eventi più ricchi, costruttivi e purtroppo, in proporzione, meno finanziati dell’Estate romana. Credo che i politici di tutti i colori dovrebbero tenere più in considerazione un’imprenditrice culturale coraggiosa e capace come Carmen Pignataro, capace di far vivere e sopravvivere i luoghi magici e quasi perduti di una città sempre meno eterna.