La “questione morale”, nodo irrisolto della società italiana

R. DE MONTICELLI, La questione morale, Raffaello Cortina editore, Milano, 2010, Euro 14,00

Non è certamente un caso se il libro di Roberta De Monticelli è divenuto un best seller nazionale, toccando le quarantamila copie vendute. È il segnale, non l’unico, che molti italiani, finalmente, hanno iniziato ad interrogarsi sul significato e sul senso profondo di termini come ‘morale’ ed ‘etica’.

Nadia Fusini, su La Repubblica del 15 marzo, scrive che l’autrice del libro vorrebbe che il lettore “… a partire dalla sua propria vita si faccia filosofo, amante cioè della conoscenza”. E non possiamo essere che d’accordo con questa affermazione purché si parli di filosofia in senso generale e non della maggior parte dei filosofi acclamati nei libri di storia della filosofia.  Questo perché, tanto per fare un esempio, l’opera di Platone, ‘Politéia’, titolo orribilmente tradotto in ‘La Repubblica’, che racchiude i suoi pensieri di teoria politica, è divenuta il paradigma per i vari totalitarismi del Novecento.

Dicevamo che la De Monticelli non è l’unica a scrivere di morale. Il suo libro è un altro sintomo del malessere civile degli scrittori che cercano una propria ‘cura’ pubblicando libri che parlano di questo ‘dolore’, sociale e politico, che sta divenendo giorno dopo giorno più lancinante: ‘Etica oggi’ di Michela Marzano, Etica minima di Pier Luigi Rovatti, ‘Indignatevi’ di Stéphane Hessel, sono la cartina tornasole di una ricerca degli intellettuali europei che si sta sviluppando attorno a temi ormai divenuti incandescenti, come la democrazia liberale e il nuovo colonialismo camuffato da globalizzazione. Poi c’è il bellissimo libro di Mario Vegetti, recentemente ristampato, ‘L’etica degli antichi’ che racconta il farsi dell’etica, dalle passioni calde dagli eroi omerici alla gelida razionalità platonica.

Ci prova anche Vito Mancuso a fare un discorso sulla morale nel suo ultimo libro ‘Vita autentica’, ma già il nome della collana nella quale è stato inserito, ‘Libera ricerca spirituale’, ci fa intravedere eteree divinità pronte a ristampare leggi mosaiche, rivedute e corrette dal grande teologo Mancuso, da distribuire alla fine della messa.  Non è certamente quella di Mancuso, il quale, “udite, udite” ha scoperto, ora, la menzogna millenaria del peccato originale, la strada per conoscere il senso della morale e della sorella maggiore: l’etica.

Partiamo allora dal più criptico dei presocratici, Eraclito il filosofo naturalista del “panta rei”, soprannominato skoteinòs, (l’oscuro), che ci parla da 2600 anni attraverso i suoi frammenti. Uno dei più intraducibili e discussi è il centodiciannovesimo il quale, poeticamene, evoca il senso profondo dell’etica: èthos ántròpo daímon. Il frammento è stato come dicevamo tradotto in vari modi, il più noto recita in questo modo: “indole dell’uomo è demone”. A noi sembra una traduzione non solo filologicamente errata , ma anche alterata dalla credenza giudaico/cristiana sulla realtà umana, che sarebbe depravata, già dalla nascita, dal peccato originale, perché questa traduzione afferma che l’essere umano è naturalmente ( per indole) un demonio.

Vediamo prima di tradurre letteralmente le tre parole: ‘èthos’ è un vocabolo che all’epoca di Eraclito stava a significare grosso modo l’etica, vale a dire le regole sociali di etnie o tribù che convivevano in una polis, le quali, naturalmente, si traducevano in leggi tacite, e qualche volta trascritte;  ántròpo sta per ‘essere umano’,  e non per uomo (àndros) come nella traduzione ufficiale; daímon, nel tempo di Eraclito, non poteva essere inteso come ‘demone’, figura che poteva al più appartenere alle religioni del Vicino Oriente . Il daímon per Eraclito, era la realtà interna dell’uomo, il suo io individuale, il suo ‘irrazionale’, diremmo oggi, che lo ‘obbligava’, nel bene e nel male, a comportamenti personali ed individuali. Il daímon era vissuto, come sottolineò anche Gracia Lorca nella sua conferenza a Cuba nel 1930 ‘Il Duende.  Teoria e gioco’, come una caratteristica individuale; il daímon era a tutti gli effetti una realtà interiore che poteva palesarsi o rimanere celata, ma che in ogni caso dominava i pensieri e di conseguenza – in un periodo storico nel quale pensiero e atto erano fusi e non scissi come avverrà poi nel sistema filosofico platonico/cristiano – anche le azioni. Fatte queste premesse proviamo noi a tradurre l’oscuro Eraclito: La realtà interiore (daímon) è legge (èthos) per l’essere umano (ántròpo).

Tutto questo è molto importate per un motivo semplice: la responsabilità individuale. In quel periodo storico, lo spiega molto bene Vegetti, non era pensabile un’etica non condivisa in una polis composta da poche centinaia di individui. Le leggi o venivano interiorizzate psichicamente dalla maggior parte dei cittadini divenendo patrimonio interiore di ogni individuo, non solo nel pensiero cosciente ma anche nel ‘pensiero irrazionale’, che li responsabilizzava nella vita comunitaria, oppure l’individuo che non accettava le regole sociali, interiorizzandole, non poteva appartenere di fatto a quella comunità. In quel periodo storico, non essendoci ancora la scissione tra corpo e psiche, poi codificata e legittimata dalla filosofia platonica, la fisiognomica del volto avrebbe svelato i pensieri dissociati dal ‘sentire’ corporeo. Quindi non si poteva dire di accettare l’etica comune e poi non rispettarla era un delitto punibile o con la morte o con l’esilio perpetuo. Esilio che significava per colui che essendo cacciato dalla comunità diveniva un apolide la morte civile e una vita da cane randagio.

Ora, nei nostri giorni, dove la morale dei potenti, che dovrebbe essere un’etica alla quale aspirare, è caduta nell’immoralità più cancrenosa, dobbiamo obbligatoriamente indignarci ed assumere una reazione etica, che si deve tradurre in responsabilità non solo delle azioni ma anche dei pensieri. Riconquistare la fusione tra pensiero ed azione significa aprire gli occhi per scoprire che gli ‘aristocratici’ non sono quegli imbecilli che vanno a ballare davanti a platee di idioti, ma sono nell’antica accezione, gli ‘aristòs’, i migliori tra i cittadini. E quindi sono i medici, gli scienziati, i ricercatori che studiano come salvare la vita a persone di cui non vedranno mai il volto. Ma sono anche gli artisti, gli scrittori, i giornalisti, che sanno valicare i confini della normalità e sanno intravedere, mostrare e rappresentare con il loro lavoro ciò che i più non riescono a decifrare né a comprendere da soli.

Queste persone, i ‘migliori tra noi’, esistono, basta aprire gli occhi e guardare al di là della cataratta dell’irresponsabilità che non sa e non vuole giudicare e distinguere chi distrutto internamente vuole trascinare con sé il  mondo intero corrompendo a destra e a manca, da chi fa in modo che la propria realizzazione umana divenga anche una possibilità e un pungolo per la realizzazione degli altri esseri umani, sconosciuti.

Tornare a vivere l’etica interna, salvata nei marosi dei rapporti interumani, spesso deludenti ma ineludibili, è prendere in mano la propria vita, umana, intera, senza scissione tra pensiero ed atto, e portarla a continue realizzazioni che non escludano l’altro uguale e diverso da sé.  Tornare a vivere l’etica interna significa fidarsi del proprio ‘sentire’ e non permettere a coloro che parlano di peccati originari, che vengono ‘curati’ da riti sacri e dalla Grazia divina, di ipnotizzarci. Prendere in mano la propria responsabilità verso l’altro da sé significa  non credere supinamente a intellettualoidi freudiani che parlano a vanvera di homo homini lupus e di un male connaturato nell’uomo e tenuto a freno dal super io della ragione. Finché crederemo a questa cultura violenta che cerca di snaturare la percezione della realtà umana, l’etica e la morale saranno solo il vestito buono dell’idea utilitaristica che ci fa fare le cose perché sono utili, e quando sarà utile buttare a mare gli extracomunitari lo faremo … cambiandoci solo il vestito.

La ‘questione morale’, solo evocata nel libro di Roberta De Monticelli, è una questione di sopravvivenza dell’umano, e del suo sapersi esprimere e mostrarsi nella società civile, anche con il voto, anche con l’indignazione che riempie le piazze, anche e soprattutto con il rifiuto di ciò che, non essendo etico, è disumano.

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