‘Sabato’ di Jacopo Spaziani

Io in mezzo alla gente, Sabato 15 Ottobre, c’ero. Alla fine della giornata, non ho riportato ferite fisiche, ma per come sono io qualche segno in testa m’è rimasto.

Era partito tutto bene: ero contento di avere gli amici di una vita lì con me, di sapere che anche mio padre era tra noi.
Ero contento quando la gente mi fermava per fare la foto al mio cartello, tanto che con la spinta degli altri lo innalzavo e lo facevo vedere, e già mi sentivo in imbarazzo.
Ma nonostante questo lo esponevo agli obiettivi, contento di essere portatore di un po’ di buonumore.

“Sto uscendo dalla metro di Repubblica, mi chiama un amico. È già con la ragazza, oltre la metà di Via Cavour. Mi avvisa che appena un secondo prima un gruppo di persone, incappucciate, col casco ed i volti coperti, aveva attraversato il corteo di netto, cominciando a spaccare le vetrine dei bancomat e a dar fuoco ai cassonetti. Mi consiglia di saltare l’inizio del corteo e di andare direttamente ai Fori, dove la situazione sembra molto più tranquilla. Lo rassicuro, attacco il telefono. Ma con gli altri decidiamo comunque di proseguire dall’inizio”.

C’erano tanti ragazzi, ma sembravano ancora di più le persone grandi, le donne, i pensionati. I loro volti sereni, con solo tanta rabbia che sfogavano con canti, urla, danze.
C’erano le immancabili bande musicali delle associazioni, i venditori di fischietti, i giocolieri.
Insomma, c’era una marea di gente, e si stava di un gran bene.

“Decidiamo di smettere di camminare sulle vie laterali: guido il mio piccolo manipolo di deficienti al centro della via, in uno spazio che si era creato nel cordone principale.
Mentre ci stringiamo un po’, visto che un mezzo dei vigili del fuoco è legato col nastro rosso-bianco al muro, per isolare i vetri di una banca a terra, nell’esatto momento in cui tutta la folla si addensa, da davanti parte una piccola carica. L’umore cambia in zero: i sorrisi lasciano spazio alle urla, gli occhi grandi di allegria a quelli ancor più grandi del panico, la camminata lenta ad una retromarcia brusca. È questione di un attimo, non vedo neanche se son stati i poliziotti. Poi arriva il l’esplosione di una bomba carta: indietreggiando, molti di noi si trovano in un vicolo, e mentre mi giro capisco che c’è qualcosa che non va. In fondo ci sono tre camionette, che ci sbarrano l’uscita.”

“Il tempo di capire che la carica è passata e possiamo rientrare.
Ma all’improvviso si muove qualcosa. Il tempo per capire ora non ce l’abbiamo: mentre rientriamo su Via Cavour, da Termini arrivano, scendendo, una ventina di persone, tutte vestite di nero. Mi ritrovo nel vicolo, di nuovo: dietro le camionette, davanti alle teste di cazzo.
E qui partono una serie di scene che, se non l’avessi viste con i miei occhi, stenterei a crederci:
i neri cominciano a scendere le scale, stringendo me ed un’altra sessantina di persone con le spalle contro i mezzi della polizia. Una ragazza strilla ad un poliziotto che si affaccia tra l’angolo del palazzo ed il muso di una camionetta, di spostarne una, per farci uscire, che questi ci ammazzano. Di risposta, un “Che cazzo vuoi che facciamo? Porca mado…!”, urlato con tanto di manganello agitato.
i neri scendono ancora una rampa, qualcuno di loro si toglie la sciarpa da davanti la faccia per urlare e spaventare ancora di più. Hanno tra i venticinque e i quarant’anni, agitano i bastoni. Noi gli gridiamo di andare via, loro avanzano. La gente comincia ad arrampicarsi su un motorino rosa”.

“Un piede sul sellino, uno sulla sfera di ferro dei pali e su, sul tetto della camionetta. Altri, invece, si fanno leva su un vaso e passano attraverso lo spazio tra due cellulari. Dall’altra parte, per fortuna, i poliziotti porgono mani per aiutare le persone.
Qui si raggiunge l’apice della tensione: le persone su Via Cavour, senza volerlo, stanno impedendo ai neri di uscire dal vicolo. Così come ci sono stai spinti, ora non sanno come uscirne. I neri per un attimo non sanno che fare: un secondo e sembrano volerci montare sopra, poi capiscono che dopo di noi ci sono i poliziotti. Quindi tentano di risalire, ma un signore esile e dai capelli bianchi, nonostante l’età, li blocca. Supportato da altri manifestanti “normali”, ne placca uno e lo butta a terra. Il branco si avventa sull’uomo, alzando e facendo ricadere i bastoni.
Io, da un paio di minuti, sto aiutando signore, genitori con bambini e ragazze in preda al panico a scavalcare quel vaso che per tutti, presi dall’agitazione, è una montagna. Quando vedo l’uomo venire picchiato, alzo lo sguardo verso un poliziotto, in piedi sul tetto della camionetta.
Gli grido di fare qualcosa, di spaccargli le gambe, di intervenire.
Il suo sguardo è vuoto, si gira guardando in basso verso i colleghi, in cerca di un appoggio.
Niente.
I neri si placano, sgusciano via dalle persone che vorrebbero bloccarli e si dileguano.
Nel mentre, però, scavalco io.
E il tizio che coordina il plotone fa fermare me, ed un altro ragazzo.”

Ora, io in una situazione così non mi ci ero mai trovato. Tutto quello che sapevo, su quando ti fermano le guardie, si chiamava caso Cucchi, Aldrovandi, Uva, e così via.
Non un quadro proprio rassicurante.
Quando poi, mentre un tizio in borghese ma con casco e manganello, ti tiene il braccio inchiodandoti di fatto in mezza ad una cinquantina di poliziotti in tenuta antisommossa, il quadro è proprio appeso male.
Diciamo solo che ho sperato di svenire alla prima manganellata.
Invece, dopo la solita scenata (“Te, stavi a menà…”, “T’ho visto che stavi a picchià..”), un controllo dello zaino e troppo tempo per scoprire che non avevamo precedenti, devo dire che un lato umano, piccolo eh, l’ho visto.
Perché c’erano persone, sotto quei caschi. Persone che aspettavano ordini, erano pronti per sparare lacrimogeni, per intervenire contro i neri. Ma quell’ordine, almeno per il tempo in cui sono stato vicino a loro, non è arrivato. Ci hanno fatto spostare (“Se stanno a avvicinà, occhio!!”), si son preparati. Ma nessuno gli ha detto di avanzare un solo passo.
Per questo il poliziotto che strillava alla ragazza bestemmiava, ed ecco spiegato il perché dell’immobilità di quello in piedi sulla camionetta: aspettavano. Io ci ho visto che sarebbero intervenuti volentieri, ma niente. Il vuoto.

A me spiace solo per una festa rovinata, per un inizio di cui nemmeno abbiamo visto la fine.

Non voglio mollare, non mi va. Ce ne stanno combinando di tutti i colori, ma noi dobbiamo essere daltonici.

Io ci credo ancora.

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