Mio figlio è stato a Genova

-Tu, lì, questa volta non ci vai!
Ero dura, ferma, col cuore che mi si stringeva.

Lui sbraitava, continuava a cercare le cose necessarie per prepararsi il suo zainetto verde militare.
-Vattene, mamma!
Io non mi schiodavo dalla sua stanzetta. In piedi, accanto al suo letto. Dietro di me c’erano le sue foto da bambino. Che giocava al mare col papà, la sua prima comunione e i suoi compleanni.
Ora si sentiva un uomo.
Lo vedevo uomo, ma non potevo dirglielo.
-Sei solo un ragazzino. Non è un gioco! A Genova non ci vai. Non ha senso!
Lui non alzava lo sguardo.
-Io a Genova ci vado. Punto e basta.
-Ma che ci vai a fare?
-Ci vado perché voglio farmi sentire! Ma lo vedi quello che ci stanno facendo? Ma ti sembra umano che otto persone decidano per miliardi di persone? Che siamo costretti a subire quello che decidono le banche e il Fondo Monetario Internazionale? Quello che sta capitando ai Paesi più poveri un giorno potrebbe capitare anche a noi! Voglio un mondo diverso, mamma, io non ho paura!
-Se lo sa tuo padre… Hai chiuso! Non potrai più entrare a casa!
-Ma che cazzo dici? Ma se è stato lui a portarmi alle manifestazioni! Capirà!
E’ vero, mio marito avrebbe capito. Ma io non volevo. Avevo una sensazione strana, avevo il timore che Luca si potesse trovare in pericolo.
Ricordavo i miei genitori, mi sentivo i miei genitori. Quante volte mi hanno controllato la borsetta, quante volte mi hanno seguita! Per loro i miei amici erano drogati e terroristi.
-Chi ti ha messo in testa questa cosa? Con chi vai?
-Mamma non capisci. Andiamo tutti! I soliti. Ma stavolta non saremo soli. Tutto il mondo si incontrerà lì sotto. Vengono dalla Francia, dalla Spagna, dal Nord Europa, dall’America. Ci stanno migliaia di associazioni, sarà bellissimo!
Più passavano i minuti, più il momento della sua partenza si avvicinava, più la mia fermezza diventava isteria. Il mio linguaggio si colorava di insinuazioni, di volgarità, di loschi giochi psicologici.
-Sono sicura che sono quegli stronzi del Centro Sociale, cosa ti hanno detto? Ti senti più figo se vai? Vuoi dimostrare qualcosa a qualcuno per caso?
-No, vado con Marco e gli altri.
-Ora mi tornano i conti, c’è Sara? E’ per lei, vero? Sei un cretino!
-Ma stai fuori? Mamma cosa ti succede?
Per lui ero l’amica a cui aveva insegnato come lavare i piatti senza sprecare acqua. Quella signora entusiasta di andare a fare la spesa insieme con la lista dei prodotti da boicottare. Ora si trovava un muro.
-La maglietta dell’Adidas non te la porti? Hai paura che ti rimproverino di non essere No Global, No Logo o qualche cazzata del genere… Vuoi che prenda le forbici, che ti scucia l’etichetta? Ma smettila!
Luca accese lo stereo ad alto volume, al suo interno c’era un cd di Manu Chao.
-Abbassa! Parlami!
-Non ho nulla da dirti!
Era la prima volta che mi sentivo così distante da mio figlio. Lui aveva diciotto anni, io era come se non avessi mai vissuto, se tutto il tempo passato non fosse servito a nulla. Non avevo capacità, esperienze, autorevolezza per far sentire il peso della mia età anagrafica.
Avevo perso contatto con mio figlio, non volendo mi ero mostrata diversa da quello che ero. Ma era un tentativo per proteggerlo, nulla di più.
Tornata in soggiorno mi misi a leggere un libro di Hesse, poi la porta si aprì e si chiuse.
Nemmeno un saluto.
Mio marito, la sera, minimizzò la questione. Rise, canticchiando una canzone degli Skiantos:
“Sono un ribelle, mamma…”
-Sarà una bella esperienza, non sarà come a Seattle. Siamo in Italia e Genova è una città bellissima… La città di De André!
Mi tranquillizzai tra le sue braccia.

Nei giorni a seguire Luca ci chiamò sereno. Si era sistemato in un edificio occupato, col suo sacco a pelo. Lo stesso che usavamo in campeggio d’estate. Sembrava avesse dimenticato tutto. Mi raccomandavo solo una cosa.
-Tieniti lontano dalla zona rossa!
Lui rideva.
-Giuramelo!
E lui me lo giurava.

Poi d’improvviso tutto precipitò.
Ancora oggi non so cosa abbia visto, cosa abbia vissuto. Non ne parla molto. So che in tv mandavano scene da guerra in Vietnam, poi da repressioni della dittatura sudamericana. Si alternavano politici vestiti di lusso e fotogrammi di una città devastata.
Si giustificava la violenza su quei ragazzi con le parole di Scajola, su quel limite superato, quei quattro passi in più che mettevano ragazzi come il mio Luca più vicini a quei potenti.
Iniziai a chiamarlo, ma il telefonino non prendeva.
Mio marito mi diceva:
-Te lo ha giurato, stai tranquilla.
Non stavo tranquilla perché pensavo che Luca è mio figlio, che se mi dicono di stare lontana, mi avvicino. Perché so che la mia voce ha una forza e perché voglio che sia sentita.
-Nostro figlio non è un black block, è un pacifista convinto, come lo eravamo noi alla sua età.
Mi fumavo una sigaretta e poi respiravo. Durava poco perché poi iniziava anche lui.
-Perché non risponde?
La polizia usava i manganelli, fermava le persone, se le portava via. Bruciavano cassonetti, si spaccavano vetrine al susseguirsi dei lacrimogeni e delle prevaricazioni.
Ho detto di tutto a mio marito, ho pensato addirittura che se tutto fosse finito bene, ci saremmo separati. Ho pensato che era colpa sua. Che non era giusto che a rischiare la vita fosse la mia creatura, che Luca non c’entra niente, che a votare Berlusconi erano stati quelli della nostra età.
Poi la notizia della morte di un ragazzo. E la chiamata di mio figlio.
-Sono al sicuro, mi ha fatto salire a casa una famiglia. Sono gentili. Non mi muovo da qua finché non è finita.
Ho ripreso ad essere madre. Una madre diversa dalla mia.

Mio figlio non aveva colpe per trovarsi in mezzo alla furia dei potenti, ma non le aveva nemmeno Carlo e tutta la loro generazione.
Tornato a casa lo abbracciai e abbracciai mio marito.

Non gli ho detto che doveva ascoltarmi.
Avrei dovuto ascoltarlo io.

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