Il figlio che non volle credere morto il padre

Mille giorni. Ancora mille giorni da aspettare. Sarebbero stati sufficienti mille giorni, trascorsi i quali sarebbe stato premiato della sua lunga attesa e della pazienza dimostrata. 

“Dopo, finalmente, babbo ricomparirà sulla soglia di casa”. 

Fu questa la risposta che un giorno mi diede Iginio, alla domanda che gli rivolsi per sapere quando il padre sarebbe tornato dalla Guerra. Né lui, né tanto meno la madre credevano a quanto gli dicevano le comari e le compagne di vicinato: “Onelio è finito in fondo al mare, dentro una bara d’acciaio”, “Ma che dici? Sei fuori di senno! Vedrai che un giorno o l’altro ritroverà la sua strada; me lo dice il cuore che ritorna. Deve essere finito prigioniero da qualche parte, portato dagli Inglesi chissà in quale campo e non è stato ancora rilasciato. Ma vedrete che una volta che avrà scontato quella che dicono sia la sua pena, lo rivedrete di nuovo sul sagrato della chiesa per la Festa del Padreterno!”. E non c’era altro da dire per riportare quella donna alla ragione: viveva le sue giornate aspettando un segnale, una fermata insolita del postino, oppure la chiamata di Luciana, la centralinista della Ferromin che dava gli appuntamenti telefonici. Aspettava, la madre. Come anche Iginio. 

Non rivolsi più domande del genere a Iginio, anche se quei mille giorni erano scaduti da tempo. Per lui ne rimanevano ancora mille e poi mille ancora. Era come se il suo cervello non volesse accettare la realtà e si rifugiasse in un angolo dove stava bene, dove poteva riacquistare la serenità che purtroppo l’evento drammatico aveva tolto, soppresso definitivamente. 

Iginio era un mio carissimo compagno di giochi. Era con lui che barattavo i miei fumetti. Era sempre con lui che giocavo a carte nelle logge, al fresco, nei lunghi pomeriggi assolati d’estate, quando le vie del paese diventavano deserte e sembrava che il caldo non ci volesse lasciare soli. Oppure al negozio del sarto, con il piccolo Marietto. Il negoziante ci permetteva di metterci a sedere sullo scalino. Quando i clienti volevano entrare a prendere le misure per l’abito o a chiedere informazioni sulla commessa che avevano ordinato, allora, dovevamo far largo e liberare l’ingresso dalle carte che avevamo disseminato. Il sarto era molto paziente. Doveva sopportare le nostre sfuriate quando le rivalità prendevano il sopravvento e cominciavano a funzionare da pretesto per rovesciarci addosso una caterva di improperi. 

Iginio però non diceva brutte parole. Era come se avesse fatto un patto con Domeneddio, per avere in cambio qualcosa cui lui teneva moltissimo.  

Nessuno gli disse nulla di quello che era successo nel golfo della Sardegna. Era stata la radio a dare la notizia della maggiore disgrazia navale subito dall’Italia ad opera di coloro che fino a poco tempo prima erano stati alleati. Ora quell’orribile e ingombrante mobile era spento. Non funzionava più, tanto quello che doveva dire l’aveva già detto e la notizia era giunta a destinazione. Non c’era ancora la sicurezza che tra i morti ci fosse anche il familiare: una flebile speranzella si poteva sempre coltivare. Iginio non capiva perché i grandi, in special modo le donne di casa, continuassero a piangere. Nessuno della famiglia aveva ritenuto opportuno chiamarlo a sé, metterselo sulle ginocchia e iniziare a parlare. La verità, forse, neppure i grandi la conoscevano. 

Camminava da una stanza all’altra della casa in cui era cresciuto e ovunque andasse, pure in salotto, trovava familiari con il muso lungo. Era un pianto generale: sia dei suoi familiari, sia dei vicini che si affacciavano sull’uscio. A un certo punto non ce la fece più a restare in quell’ambiente che, fra le finestre chiuse e con gli scurini abbassati, era piombato nell’oscurità. Decise di uscire. 

Quel giorno, per la via, non trovò nessuno. Come se fosse suonato il coprifuoco. Nessuno che lo potesse occupare in qualche diversivo. Senza accorgersene, giunse al porto. Camminava sul pontile. A neppure due metri da lui, il mare. Un mare amaro, che era in grado di scatenare sensi  negativi e regalare dolore, disperazione. Il mare portava la morte. Non poteva avvicinarsi a quella massa eternamente mobile senza provare amarezza, angoscia, gli faceva tornare in mente quanto era successo a molte miglia da lì. Gli appariva nemico, potente. Come quando si cammina sulla battigia della spiaggia di Lido, dopo un fortunale che è durato una notte, e ci si imbatte in un’infinità di oggetti e di resti che solo una forza violenta è in grado di strappare alla terra. Non gli venne neppure voglia di chinarsi e immergere una parte del suo corpo, per rinfrescarsi. Quelle onde che sembravano accarezzare la fiancata del porto e che facevano nascere l’erbino che piace così tanto ai “suoi” granchi, adesso le sentiva ostili. Le guardava aspettandosi da un momento all’altro che gli riportassero indietro suo padre. 

 

 

Lo aspettava tutte le sere

all’ora del tramonto

Come mosso

da un profondo richiamo

si metteva in piazzetta

di fronte al mare

e scrutava l’orizzonte

nella speranza di scorgere

una nave in avvicinamento

 

Diceva che attendeva suo padre 

e non importava

se da anni

non avesse più ricevuto una lettera

 

La tavola sempre apparecchiata

per due: 

per sé e per il babbo 

inghiottito dalla guerra

nelle acque di Corsica

 

Ma lui non credeva

alle voci di paese

che parlavano di immane tragedia

di naufragi e inabissamenti:

non poteva essere

accaduto a suo padre

Non poteva succedere

che il mare

avesse avuto su di lui

così tanto potere

 

Suo padre

era sempre stato il più forte

e anche questa volta

avrebbe avuto ragione lui

 

Non poteva essere morto

Lo aspettava

sempre

sulla soglia di casa

quando il sole declinava 

dietro Esperia.

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