Primavera

 

17 Dicembre 2010

 

Era una mattina fredda quella del 17 Dicembre. L’inverno era arrivato anche a Sidi Bouzid, dove la sabbia e la polvere che infestano le strade a volte fanno dimenticare che non esiste solo il caldo torrido del deserto.

Mohamed quella mattina si avviò per le strade con il suo carretto. La sua casa era lontana dal centro della città, così ogni giorno doveva svegliarsi di buon ora e mettersi in cammino. Ogni mattina il suo tormento cominciava daccapo. Gli affari andavano male, la gente di soldi ne ha pochi e alla frutta si può rinunciare. Eppure Mohamed non aveva altro modo per procurarsi da vivere, doveva ancora tentare. Solo il giorno prima si era indebitato di altri 200 dollari per poter comprare la frutta. Se quel giorno non riusciva a vendere niente, tanto valeva prepararsi ad un’altra settimana di fame. Troppe persone dipendevano da lui, da quel carretto, da quella frutta: la madre, lo zio, i fratelli più piccoli e le sorelle che studiavano. 

Di sogni Mohamed ne aveva pochi, a 26 anni era già venuto il tempo di metterli da parte, forse l’unico era potersi comprare un camioncino e magari provare a regalare una vita migliore alla sua famiglia. Di incubi invece Mohamed ne aveva troppi, e il più grande tornò ad affacciarsi nella sua vita anche quella mattina. 

La polizia lo tormentava da anni, non c’era giorno in cui non venivano a torturarlo, a chiedere soldi o a portare via la sua frutta. Mohamed odiava la polizia quanto odiava Sidi Bouzid, entrambe corrotte e rovinate, entrambe sporche e senza speranza. 

Quella mattina i poliziotti vennero ancora da lui. Mohamed non aveva soldi da dargli. Se avesse venduto la frutta quel giorno forse avrebbe a malapena coperto i suoi debiti, ma certo non poteva permettersi altre tangenti. Questo ai poliziotti non interessava: prima lo insultarono, offesero la memoria del padre, gli sputarono in faccia. Alla fine passarono alle mani: lo presero a schiaffi, lo picchiarono a sangue, ribaltarono il carretto. Mohamed si trovò per terra, umiliato, sanguinante, il carretto distrutto, le bilance e la frutta rubate. 

Quella volta Mohamed non poteva sopportare, non poteva più vivere così. Troppa rabbia, troppa disperazione da poter contenere in un’esistenza tanto miserabile. Doveva pur esserci qualcuno in grado di aiutare quelli come lui. In tutta la città doveva ancora esserci un briciolo di bene, qualcosa che non fosse già marcio e corrotto. In una città i giovani non hanno lavoro, in cui la gente ha fame e si trascina per le strade luride, in cui perfino la polizia infierisce sui più deboli, a chi si può chiedere aiuto?

Mohamed andò dal governatore, voleva solo avere indietro le sue bilance, ma quello neanche volle ascoltarlo. La rabbia ormai stava già esplodendo dentro di lui, un pensiero nero iniziava a prendere forma. 

«Se non mi vedi, mi darò fuoco» gridò contro il governatore, ma quello nemmeno si degnò di rispondere. Lo mandarono via senza una parola, un disperato in una città di disperati. 

Eppure ormai qualcosa si era spezzato dentro Mohamed, il seme nero era germogliato e ormai l’idea aveva preso forma compiuta nella sua mente. Sapeva cosa andava fatto, e per quanto potesse avere paura, per quanto potesse odiarlo, sapeva che era l’unico modo. 

Non bastano parole a descrivere quale volontà cupa e ferrea possa portare a fare quello che fece. Immolarsi solo per risvegliare le coscienze, solo per cambiare le cose. Distruggere sé stessi per spezzare le catene di tutti. A questo pensava Mohamed mentre si presentava di nuovo davanti all’ufficio del governatore, stringendo tra le mani una tanica di benzina. A questo, e forse a mille altre cose. Quella mattina, quando si era svegliato solo poche ore prima, certo non doveva aver immaginato di ritrovarsi lì con un fiammifero in mano, davanti a quel palazzo che era solo il simbolo di qualcosa di più grande. Lui stesso forse immaginava di diventare un simbolo, lui, quel palazzo, quel fiammifero, nient’altro che simboli. Questo non possiamo saperlo, sappiamo solo che disse: «Come credi che io possa guadagnarmi da vivere?». 

Un attimo dopo il suo corpo era avvolto dalle fiamme. Era poco prima di mezzogiorno, la strada era trafficata e moltissime persone osservavano il rogo in preda al panico. Nessuno riusciva a domare le fiamme, Mohamed non voleva smettere di bruciare, forse avrebbe preferito stare lì per sempre, come una candela, a ricordare i peccati di quella città. 

Mohamed non morì quel giorno, il 17 Dicembre iniziò la sua morte, ma dopo una lenta agonia si spense solo dopo 18 giorni. A quel punto tutta la Tunisia conosceva già la sua storia. 

Mohamed non morì quel giorno, Mohamed Bouazizi non morì mai più. Quel giorno con quella scintilla aveva solo acceso la fiamma destinata a scuotere la sua terra fin dalle fondamenta. 

In quella mattina d’inverno Mohamed aveva dato vita a una Primavera che non avrebbe avuto fine. 

 

5 Gennaio 2011

 

«Addio, Mohammed, ti vendicheremo. Noi piangiamo per te oggi. Ma faremo in modo che piangano coloro che hanno causato la tua morte» cantava una folla di 5000 persone durante il corteo funebre a Sidi Bouzid. 

 

Con il suo gesto Mohamed Bouazizi diede inizio alla “rivoluzione dei gelsomini” che cambiò radicalmente volto alla Tunisia. Da quel momento prese vita la Primavera Araba che ancora oggi infiamma il Nord Africa e il Medio Oriente. 

 

Elio Errichiello

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