Sufjan Stevens: il ritorno del genio

Poteva andare sul sicuro Sufjan Stevens, in fondo aveva solamente scritto una delle canzoni più belle dell’ultimo decennio, “Chicago”, dall’album “Illinois” del 2005: bastava continuare sulla falsariga di quel pezzo per i brani del nuovo album e, con il supporto del suo innegabile talento, dar vita a nuove composizioni che avrebbero suscitato l’invidida di Brian Wilson e Burt Bacharach.

Ma il nostro non è tipo che si siede sugli allori, in fondo il suo percorso artistico è abbastanza esemplare da questo punto di vista: esordisce nel 2000 con “A sun came”, cui segue l’anno seguente “Enjoy your rabbit”, disco dedicato agli animali dell’oroscopo cinese, composto da brani strumentali di musica elettronica. E’ però con “Michigan” che il mondo comincia ad accorgersi di Sufjan Stevens, soprattutto per il bizzarro progetto che c’è alla base del disco: quello di essere il primo di una lunga  serie di album, uno per ogni stato degli USA. Sufjan a riguardo dichiarerà di esser stato rapito da degli extraterrestri che lo avrebbero poi portato nella loro navicella spaziale e gli avrebbero affidato questo incarico! Il lavoro successivo, “Sevens swans”, è una raccolta di canzoni che ci mostra il suo lato più intimista, e precede quello che a tutt’oggi può considerarsi il capolavoro di Sufjan Stevens, “Illinois”, secondo dei dischi dedicati agli stati, album presente in tutte le classifiche dei migliori dischi del decennio appena passato, in cui splendide ballate acustiche si alternano a pezzi pop con arrangiamenti orchestrali – da qui il termine di pop orchestrale coniato dalle riviste specializzate per descrivere in qualche modo lo stile dell’artista. E’ dell’anno successivo “The Avalanche”, raccolta di b-sides, outtakes e versione alternative dei brani di “Illinois”, lavoro dall’impronta rock più marcata, che in alcuni momenti sembra addirittura superare le vette del suo predecessore: incluse nella tracklist anche tre differenti versioni di “Chicago”, con la “acustic version” da brividi.

Segue un periodo di silenzio, interrotto a fine 2009 dalla pubblicazione della colonna sonora di un documentario dedicato alla BQE, l’arteria che collega Brooklyn al Queens, e da un ep, dalla durata anomala di quasi un’ora, “All delight people”, uscito quest’estate.
Arriviamo quindi a The age of adz” – con titolo e copertina ispirata all’arte del pittore americano Royal Robertson – che può essere considerato il vero successore di “Illinois”, e il risultato è ancora una volta spiazzante: si parte con “Futile device”, brano acustico di appena due minuti, e si chiude con “Impossible soul”, lungo brano di oltre venticinque minuti; nel mezzo nove canzoni composte con un approccio quasi jazzistico, con semplici melodie che si ripetono in continuazione, affogate in un mix di cori, arrangiamenti orchestrali, fiati, ottoni e musica elettronica.

Sembra esser questa la principale novità rispetto a “Illinois”: un’elettronica abbastanza elementare – vintage può essere il termine più adatto – perlopiù sinth e drum machine, sulla falsariga di “You are the blood” brano della durata di dieci minuti presente nella compilation benefica “Dark was the night” del 2008, che a riascoltarlo ora lasciava presagire questo cambiamento di percorso.
Ma è grazie all’immediatezza dei brani che Sufjan riesce a non appesantire troppo l’intera opera, forse con la sola eccezione della già citata “Impossibile soul”, brano di cui si discuterà a lungo e che necessiterebbe  di più ascolti per essere completamente metabolizzato (o anche rigettato): “Too much”, la title-track, il primo singolo “I walked” sono invece i pezzi più riusciti di un lavoro che pur non raggiungendo i livelli di “Illinois” ci offre la conferma del talento di un artista geniale che riesce sempre a stupire e a non essere mai banale, in un panorama musicale odierno abbastanza avaro di sorprese.

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