Piume di vetro di Emanuele Berardi

Come vi avevamo accennato, iniziano una serie di racconti brevi, scritti da vari autori. Fino all’inizio delle vacanze, fine luglio primi di settembre li pubblicheremo con una cadenza di circa dieci giorni. Iniziamo con un racconto, Piume di vetro, da aprè la bombe, di Emanuele Berardi che ci racconta …

“Fortuna”, disse maneggiando il registratore, “che anni prima l’avevamo lanciato in orbita. Aveva lavorato bene, portato a termine tutta la missione. Il finto satellite oceanografico dell’Agenzia Spaziale Internazionale aveva fornito in modo esauriente e puntuale tutte le informazioni per il quale era stato progettato. Un successo tale che, terminato il suo compito, avevamo deciso di lasciarlo orbitare ancora per una serie di studi secondari. Il nuovo programma consisteva in riprese ad altissima risoluzione. Apparecchiatura mai utilizzata prima di allora. Gli italiani si erano infilati nel progetto col pretesto di uno studio cartografico di paesi canaglia fornendo apparecchi di risulta da altre missioni”.
Il foto-racconto cominciava con un’immagine bianca. Vette rocciose. Ghiacciai un tempo perenni, ora in ritiro. Poi una più scura. Acqua opaca, qualche debole riflesso di luce. Aumentando il campo i dettagli sparivano e si delineava una biscia nera di decine di miglia nautiche inseguita da navi piccole come foglioline.

“Dalle coste imbrattate della Luisiana l’immenso Atlantico è una distesa quasi azzurra”, cominciò a raccontare, “certamente meno brillante degli scatti firmati da Costeau ritrovati in archivio, ma sicuramente più ricco di cetacei di acciaio inox dotati di sonar di ultima generazione alla ricerca di nuovi siti da trivellare. L’Africa invece continua ad essere un macello. Sempre l’ultima. Le rivolte vanno a rilento. Ogni passaggio documenta ben pochi progressi. Quei maledetti negri, testa dura come pietre arse al sole, continuano a farsi a pezzi a colpi di machete. Non riescono proprio a capire il discorsetto che gli abbiamo fatto noi occidentali. Armi! Ma non in cambio dei soliti diamanti. Stavolta sono le loro donne che vogliamo. Femmine nere da piazzare nelle nostre splendide cucine fatte con il loro marmo e il nostro glorioso acciaio”.
Lasciò cadere la foto e cercò i forellini del microfono integrato.

“La maggior parte dei paesi costieri di questo continente sono ormai ridotti ad un’immensa area di stoccaggio di scorie tossiche, specie quelle nucleari, le nostre. E la cosa funziona. In Europa e nel resto del nord del mondo è ormai una vita che non si accende più nessuna lampadina senza un bel reattore nucleare fuori città. E appena i soliti tre o quattro sfigati cominciano a protestare, scattano nuovi collaudatissimi reality pieni di supertettone filogovernative che distraggono a dovere l’intero bestiame. Una volta però il meccanismo scricchiolò”.
La condensa nel sistema di raffreddamento gli fece alzare la testa e il gocciolio dell’acqua nei tubi portò a galla l’esatta sequenza dei ricordi che cercava. “Ecco le immagini”, riprese a dire poggiando l’apparecchio sul tavolo. “Correva l’anno 2011. Uno Tsunami, termine poi rimosso dal web e dai libri di testo, fece saltare in aria una centrale nucleare giapponese producendo un disastro pari a quello occorso venticinque anni prima per mano di quei luridi bastardi comunisti morti di fame. In Europa dopo quell’incidente ci fu un fiorire di tette. L’Italia stilò un decalogo di regole (tuttora in uso) che fece letteralmente scuola. La miglior Protezione Civile del mondo. Tette ovunque. Allora il nord continuò per la sua strada: la centrale venne sigillata col cemento, rivestita di lastre di piombo Ikea e coperta da una collinetta di gladioli di plastica che da lontano sembravano proprio veri. È soltanto per questo che ancora oggi siamo costretti a ritrovarci sempre tra i piedi quel ritardato pieno di bigliettoni. A causa di quelle sue regole copiate chissà dove.

Cinquant’anni di governo e mai una ruga, un discorso sensato, un numero riuscito come si deve. Guardate questa foto. Si era inventato un attentato. Aveva architettato tutto nei minimi dettagli: lo scemo, la scorta, il souvenir, le cineprese, il cerotto. Ma gli era sfuggita la camera piazzata sul finto satellite. Figuriamoci, con quel potere di risoluzione riuscì ad immortalare pure la bomboletta di sangue artificiale utilizzata nel parapiglia. Stessa marca adoperata ad Hollywood”, fece con un gesto vago della mano.

“Ad un certo momento”, riprese a dire all’altro lato del tavolo, “sempre in Africa, i libici decisero di punto in bianco di prendere a pedate un altro vecchio viscido despota. Un finimondo! Ecco le foto. Vedete? Pescherecci stracarichi di gente, corpi alla deriva, cadaveri mangiucchiati dagli ultimi esemplari di squalo rimasti. E pensare che chi bevendo piscio riuscì ad attraversare il Mediterraneo dovette pure fare i conti con le miriadi di S.P.A. lungo le coste. Vent’anni di concessione del litorale italiano ai privati erano bastati a ridisegnare i nuovi confini. Passava chi pagava, costruiva chi voleva. Posto poi che una volta messo piede sul cemento, tra polvere e bossoli, occorreva pure fare i conti con una nuova specie di cecchini in divisa verde appostati sui tetti. Niente più sabbia da quelle parti; finita tutta nei cantieri dell’edilizia pubblica al posto del calcestruzzo. Il resto erano balene spiaggiate col cranio crivellato di colpi e fuoco sui pochi straccioni sopravvissuti alla traversata.
Gli ultimi scatti della collezione mostravano un alone bianco nel cuore di una grande città. Fissò a lungo la macchia. “È lo Stato del Vaticano. Non se ne sa più niente da almeno quindici anni. Si vocifera di feste strepitose, ostie al caviale, atleti, salti dentro cerchi di fuoco e bambini cosparsi di miele e petali di rosa. Ma, ad ogni modo, senza tessera parlamentare proprio non si entra. Loro sapevano. Loro erano a conoscenza della missione”, disse con un sorrisetto maligno sulle labbra. “Anzi, contribuirono al progetto e realizzarono in tempi record lo scudo spaziale. Sullo Stato del Vaticano funzionò alla perfezione. Frutto di buoni investimenti: mafia, Ior, Paul Marcinkus. Nomi che oramai non rappresentavano più nulla”.
Raccolse il materiale sparso sul tavolo. Il nastro impresse il silenzio punteggiato dal lavorio delle mani. Con gesti misurati, quasi meccanici, sbottonò il camice, sistemò il bavero della giacca e riafferrò il registratore. “Nessuno ricorda più questo bunker. Centocinquanta metri di profondità! Centocinquanta metri di solitudine…”
La spia dell’apparecchio smise di lampeggiare. Rimase il silenzio ermetico delle pareti di cemento lisciato. Accostò il portello della cassaforte. Compose il numero, pronunciò la parola d’ordine concordata e riagganciò. Prima di entrare in ascensore sistemò il casco e la tuta di ricognizione ambientale accanto al telefonico.

Quando si spalancarono le robuste porte di acciaio il cielo era pieno di luce. L’aria odorava di zolfo.

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