“Verdone, Rosso e Bianco in viaggio verso Nord” di Emanuele Berardi

Continuiamo con la serie di racconti brevi, scritti da vari autori. Fino all’inizio delle vacanze, verranno pubblicati con una cadenza di circa dieci giorni

Vi presentiamo il racconto “Verdone, Rosso e Bianco – in viaggio verso Nord -”, di Emanuele Berardi, che narra delle peripezie di un emigrante alle prese con il referendum , le zucchine ripiene di mamma, e il solito ‘insensato’ rapporto uomo donna.

Roma, dodici giugno duemila e undici ore tredici e un quarto. In casa Berardi, la mia, ma non in quella dove sono nato, è quasi ora di pranzo. Mia madre mi corre dietro con le zucchine ripiene al tonno appena sfornate. Anche la pasta è già bella fumante sul piatto. La tentazione è quella che è, ma cerco di spiegarle (e di convincermi) che farsi più di millecinquecento chilometri non è uno scherzo. Faccio per aprire la porta, il cane si mette tra i piedi, zompetta, mi slinguazza le mani convinto che lo stia portando fuori a giocare un’altra volta a pallone, arriva pure mio fratello con sua moglie e mia nipote. Vabbé alla fine siamo in macchina. “I panini ci faranno guadagnare un sacco di tempo”, penso a voce alta sul raccordo anulare direzione Firenze. “Mio padre”, dice Daniela, “ha fatto il pieno di gas e benzina”. Bene. Il medico è fissato per le macchine, le cura come i suoi pazienti. È uno che non bada affatto al concetto di proprietà, l’auto è della figlia, ma è come se fosse sua, per intenderci. “Sono il motore e la carrozzeria che contano”, dice. Una volta si è messo a lucidare il serbatoio della mia moto che quando sono sceso sembrava appena uscita dalla catena di montaggio. Una botta di pezza che aveva tirato via dodici anni di fila ai semafori. Pazzesco.

“Ha fatto pure la messa a punto completa”. Buono anche questo. Cade una valigia. “Serviva proprio tutta questa roba?”, faccio a voce alta intravedendo attraverso lo specchietto retrovisore la montagna di bagagli franata sulla custodia del basso.
“Lo sai come sono i miei, mia madre mi ha voluto dare la pentola a pressione, le presine per il forno, la bilancia, un set completo di padelle…”
Quando ho sentito per la tredicesima volta dire “mio padre” sono scattato manco avessi urtato il solito spigolo del mobile col mignolo del piede. Roba che l’A1 mi si è parata davanti rossa come il fuoco, una lingua d’asfalto dritta per l’inferno! Che poi io sono un tipo orgoglioso. Potrei fare a meno di tutto, tirare avanti da solo, con le mie cose e lei lo sa. Insomma abbiamo litigato. Io la macchina nemmeno la volevo, che quando ero solo lassù, in mezzo ai crucchi, per andare ad ubriacarmi mi bastava chiudere alle spalle la porta di casa (un quadrato tre per due) e infilarmi dentro qualche postaccio. Ora invece la casa è una casa vera: lavatrice, macchina, niente bottiglie in giro. Le voglio bene, lei lo sa, e sa pure che se non fosse stato per lei a quest’ora sarei stato ancora a bere come un idiota. Una litigata che sarà durata fino a Firenze. No, magari Firenze no, che ne so Chianciano Terme. Chianciano, ecco, diciamo che abbiamo litigato fino a Chianciano, poi ci hanno pensato Vasco, i Cure, la bellissima “A Forest”, Iggy Pop, insomma, è passata.
La toscana è bella, qualche riflessione generica e scontata tipo: “Sai ad avere un casolare come quello lì, un vigneto così, molliamo tutto e veniamocene su ‘sti prati…” anche perché la lite ormai è rimasta a Chianciano Terme, uscita Chiusi, e sta bene lì.
L’affluenza alle 12 è stata dell’undici virgola sei percento. Undici virgola sei, che diventa undici virgola sessantotto a Firenze. Io e Daniela ci guardiamo negli occhi, non troppo a lungo perché ho lo sterzo tra le mani.
“Mamma mia, i referendum in Italia non funzionano, la gente se ne va davvero al mare! Che poi nessuno sa che in Italia sono abrogativi. Peppe l’altro giorno mi ha lasciato di stucco…”

Mi rode un casino pensare di aver preso il volo di andata una settimana prima, averlo pagato così tanto e ritrovarmi pure co ‘sto undici e rotti percento di votanti il primo giorno. “Che poi domani è lavorativo, ma forse gli statali possono entrare un’ora dopo in ufficio, sempre che abbiano presentato regolare domanda”.
A Roncobilaccio mi viene in mente il motivetto famoso, lo stesso che torna a Sasso Marconi. Devo resistere, se mi entra in testa si pianta lì e me lo tiro dietro per tutta la settimana. Fortuna che alle sette siamo a Bologna. Radio Popolare Network spara numeri meravigliosi. I ragazzi ai microfoni sono simpaticissimi, forse io e Daniela non abbiamo mai nemmeno litigato. “L’affluenza alle diciotto ha sfiorato il trentasei percento. Siamo ad un passo dal quorum”, dicono. Chiamano pure un esperto, uno di quelli che vengono fuori da questi istituti di statistica solo durante le votazioni e che in televisione sono addirittura più belli della giornalista. “Sono fiducioso”, dice il belloccio scommettendo coi tipi della radio, “se continua così si supera abbondantemente il cinquanta percento più uno”. Io e Daniela non stiamo più nella pelle, i trecento chilometri alle spalle sono un giocattolo, Iggy Pop schizza via dalla marmitta, lo vedo rimbalzare sull’asfalto dallo specchietto retrovisore, i Cure se la svignano dal finestrino e Vasco si prende la pausa sigaretta. A Piacenza sud la radio racconta che a Domodossola i votanti sono il trentaquattro per cento. Il belloccio è incontenibile; fa proiezioni per le prossime due ore (non lo vediamo ma si sistema la frangetta col solito gesto della mano).

Milano, è una sconosciuta, è tardi. Daniela vorrebbe fare un’altra sosta, a me invece viene una botta da Generale Nobile tra capo e collo e le dico che vorrei tentare tutta una tirata per essere a casa la mattina dopo. Mi guarda spiritata, comincia a sparare nomi, cifre; il San Gottardo, i pieni di benzina, acqua, soste, cessi, caffè. Ricominciamo a discutere, ad un certo momento mi vedo con il viso sul cofano dell’auto, il vetro in frantumi, un rivolo di sangue lungo la lamiera. Sono stanco, ci fermiamo a Como. Un po’ di lungolago, di saliscendi e finalmente troviamo una pensione per dormire. A cena lo zafferano è ovunque. La mattina successiva siamo sull’A9 Como-Chiasso. “Ieri sera alle 10 l’affluenza è stata del quarantatre virgola sei percento”, dice Daniela. Chiasso è divisa esattamente a metà, come Berlino quando eravamo ragazzini, ma qui la faccenda è più semplice. Un poliziotto italosvizzeroitaliano ci fa la paletta e ci chiede quaranta euro per mettere le gomme sulla loro autostrada. Siamo in territorio svizzero, fatico un po’ a capirlo perché sostiene che avrei dovuto prendere il ticket d’ingresso non so bene dove indicandomi una specie di cinema, ad ogni modo ci lascia andare via senza multa. Galleria del San Gottardo (Gotthardtunnel): me l’aspettavo diverso. Non ci sono più voci italiane via etere, restiamo col nostro quarantatre percento e rotti che gioca a pingpong sul cruscotto. L’autostrada svizzera è intubata nelle montagne, ma quando si è fuori i prati sotto i monti sono davvero belli. “Heidi è viva e lotta insieme a noi!” penso, poi i copertoni delle ruote cominciano a rumoreggiare lungo i cordoli di sicurezza, raddrizzo lo sterzo e ci fermiamo a prendere un bel caffè annacquato.

Ore sedici e trenta, territorio francese. Daniela legge la mappa: “Prendere la E25 Nancy, Saint-Dié, Strasbourg”. La campagna Francese è giallognola, secca, la terra sembra depauperata di elementi essenziali e la strada poco curata, però il limite di velocità sale a centotrenta chilometri orari. Daniela chiama sua madre, cinquantasette percento! Dico cinquantasette percento! È fatta! La gioia mi rimette in forze, ‘sta macchina va che è un piacere…
Ore diciannove, territorio Lussemburghese: fame, sete, voglia di arrivare. Altra sosta vicino Lussemburgo, un panino sei euro. Alle nove di sera entriamo in Belgio. Nell’auto sono ormai decine di chilometri che a parlare è soltanto il motore, siamo comunque convinti (ce lo diciamo senza spiccicare parola) che ne è valsa la pena. E40/A3 direzione Genk, Hasselt, Leuven.
Quando parcheggio davanti casa spiego al portinaio dell’albergo di fronte che l’Italia è quasi liberata. Dice, “ma non era già successo nel quarantacinque?” Dice proprio così, con quel solito modo belga di parlare un po’ in inglese e un po’ in fiammingo con gli stranieri, tanto per fare il difficile. “Sì”, gli rispondo, “ma stavolta non dovremmo dire grazie a nessuno. See you.”
Chiudo lo sportello della macchina. Un lampo! “Le chiavi di casa”, penso tastando le tasche, “le ho lasciate a Roma…” Alzo lo sguardo per l’imprecazione automatica e vedo le luci di casa accese. Daniela è già dentro.

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