L’insostenibile fragilità della democrazia africana

NOUACHOTT – Sono passate 2 settimane dal voto in Costa d’Avorio ed ad oggi vi sono due presidenti: uno (Ouattara) riconosciuto dalla quasi totalità dei rappresentanti esteri e da tutta la comunità internazionali (Onu in primis) ma la cui elezione non è stata ritenuta valida dalla corte costituzionale, l’organo supremo che sancisce il vincitore delle elezioni presidenziali per la legge ivoriania; l’altro (Gbagbo) proclamato dalla Corte Costituzionale (quindi legalmente Presidente), già divenuto presidente grazie al sovvertimento del risultato dell’elezione nel 2000.

E, nonostante le continue dichiarazioni roboanti (Gbagbo si deve dimettere senza condizioni), non sono visibili altre soluzioni pacifiche se non quella della trattativa.

Trattasi dell’ennesimo episodio di fallimento del processo democratico che il nuovo millennio deve registrare in Africa. Se poi si aggiunge la considerazione che l’elezione presidenziale in Costa D’avorio è in assoluto la più costosa elezione svoltasi in Africa dalla decolonizzazione, il danno diventa una vera e propria beffa planetaria. Negli ultimi due anni le debaclé dei processi democratici si sono moltiplicate: in Gabon ha vinto le presidenziali il figlio del ex padre-padrone del paese; in Mauritania l’ex putschista è divenuto presidente della repubblica sotto gli sguardi della comunità internazionale che ne ha sancito l’investitura; in Burkina Faso il presidente uscente si è fatto rieleggere con una sorta di plebiscito per la 4 volta collezionando cosi 19 anni di potere ininterrotti; In Niger un colpo di stato militare ha rovesciato l’esito del referendum che dava al presidente deposto Mamadou Tandja il potere per altri 3 anni; in Ruanda il presidente uscente è stato rieletto con il 93% dei voti e da dieci anni governa il paese.

Le uniche elezioni che hanno fornito risultati che si possono considerare coerenti con un processo democratico sono state quelle in Guinea, dove ha vinto a sorpresa Alpha Condé, malinke condannato a morte dall’ex dittaore Sékou Touré, ed in Ghana, dove il processo democratico è risultato solido dopo l’esito delle presidenziali del 2008, quando tra i due candidati la differenza risultò di meno di 40000 voti su nove milioni di votanti con una partecipazione al voto al turno di ballottaggio di quasi il 73% più alta di circa 4 punti percentuali rispetto al primo turno.

La prossima tappa elettorale a gennaio con le elezioni nella Repubblica CentroAfricana che dovrebbero far tornare una parvenza di democrazia dopo il colpo di stato del 2003, risulta un incognita.
E’ un panorama scoraggiante sopratutto per l’ingente sforzo realizzato dall’aiuto internazionale negli ultimi dieci anni in ambito di governance. Anche perché il fenomeno non è percepito per la sua gravità, bensí è trattato come singolarità locali. Ma ammettere uno scacco internazionale nell’ambito della governance equivale ad un secondo crollo del muro di Berlino, sopratutto se si intrecciano questi rovesci con quanto sta accadendo in Irak e in Afghanistan ove fu applicata la dottrina dell’esportazione forzosa della democrazia liberale, ad oggi l’unica alternativa praticata.
E’ indubbio che le specificità di ciascuna realtà nazionale pesano molto sulla dinamica di un processo di governo, ma attribuire alle sole peculiarità territoriali i fallimenti dei processi adottati è falso, fuorviante e pericoloso. Falso perché la maggior parte dei processi democratici sono stati costruiti con un’attenta analisi del contesto e delle dinamiche di potere esistenti. Fuorviante perché si riduce il processo democratico ad una tecnica ingegnieristica in cui i calcoli non hanno tenuto conto di certe incognite o di alcuni parametri. Pericoloso perché non si vede un cambiamento di strategia all’orizzonte e il rischio che il fenomeno si ripeta senza interruzione per coloro che vivono in Africa è ben consolidato. Bisogna quindi mettersi con molta umiltà a riprendere in mano i cocci del giocattolo democratico e capire dove questo si è inceppato.
Tre potrebbero essere le tracce d’approfondire: stato sociale, culture locali, stili di vita.
In Africa (forse con la sola parziale eccezione del Nord Africa) il liberismo trionfa da oramai più di ventanni: scuola, sanità, trasporti, energia ed acqua sono sul mercato ed i privati spesso detengono la quota maggioritaria e un efficenza difficilmente messa in crisi dal concorrente pubblico governativo e non (Ong, organismi internazionali, strutture umanitarie). In questo contesto le differenze sociali si sono acuite in modo impressionante e la parte più debole della popolazione analfabeta e malata si compra oramai con poche decine di migliaia di euro ovunque e comunque. Dunque le elezioni sono di fatto a suffraggio variabile secondo la quota di poveri esistenti che saranno spartiti tra i concorrenti più dotati di risorse.

Le culture locali africane ma anche quelle arabo-africane concepiscono il potere secondo una suddivisione sociale differente da quella che ha prodotto in Europa e in America la democrazia liberale. La classe borghese in Africa non esiste se non nelle teorie sociologiche o politologiche. Esiste semmai un variegato ceto medio che fa da cuscinetto tra la parte ricca e colta della popolazione e la parte povera ed analfabeta. La variabilità all’interno di tale corpone sociale è straordinaria e nello stesso tempo indecifrabile dai consueti sistemi di rilevazione dell’opinione pubblica. In Africa l’individuo è una massa singolare, nel senso che ogni suo atto mette in moto tutti coloro che sono relazionati a lui in maniera diretta per ragioni di sangue, di tradizione o di danaro. E’ un ruolo solo apparente di opinion leader, poiché è cangiante secondo la logica dell’opportunità immediata. Con una semplificazione forzata si potrebbe cosí sintetizzare: “cui prodest?” applicato ad un assenza di proiezione verso il futuro, il domani non esiste per un africano.Quindi l’opinione pubblica africana non esiste perché non vi è un pubblico, ma tanti privati che si fanno pubblico di volta in volta. Pensare di poter costruire il consenso facendo la sintesi degli interessi particolari è astrazione ed esercizio di retorica. Bisognerebbe invece tornare ai bisogni reali, ossia i servizi sociali a partire da sanità ed educazione. Un soggetto politico che, lasciando ad Arcore il populismo mediatico, si presentasse con un programma concreto di riforme sociali basate sull’accesso universale alle cure mediche e sull’istruzione di massa qualificata sbancherebbe in qualsiasi paese africano (al netto di interventi esterni). Una volta al potere l’opposizione è pressocché inesistente, poiché il senso della gerarchia è profondamente radicato nella mentalità quotidiana, per cui chi governa non ha nessuno che intralcia di fatto il suo operato, se non gli organismi di controllo legale e giudiziario.

Vivere in una capitale dell’Africa subsahariana oggi può presentare le stesse problematiche (accentuate ridotte o distorte che siano ma le stesse) della vita in una metropoli del nord del mondo. La televisione, la diffusione della telefonia mobile e la costante penetrazione d’internet hanno omologato più di quanto tentarono di fare eserciti missionari ed antropologi nei secoli scorsi. L’immagine e il microfono hanno reso possibile alla stragrande maggioranza della popolazione non scolarizzata di accedere alla modernità e post-modernita senza bisogno di leggere e scrivere correttamente. Un analfabeta è in grado di guadagnare molto più di un impiegato con l’uso dei servizi di telefonia cellulare. Le citta africane sono la faccia oscura degli agglomerati urbani dell’occidente, ma in ogni caso danno tutto ciò che l’abitante desidera: basta pagare. E le tradizioni ed usi locali favoriscono l’accesso ad alcuni servizi: il sesso in primis. Questo è possibile perché la morale sessuale cristiana si è ampiamente adattata alle modalità locali e quella islamica non entra nel merito ma si ferma nell’impedire alla donna il libertinaggio, dando però ampia possibilità di sciogliere il legame matrimoniale ad entrambi i sessi. Ci si trova quindi di fronte alla richiesta pressante di avere accesso a tutto quello che offre il mercato dei beni e dei servizi senza alcuna sostanziale eccezione. E’ il potere d’acquisto che oramai determina lo stile di vita. Chi ha la possibilità può ignorare (ed a volte sbeffeggiare) la tradizione, le regole tribali o comunitarie, praticando una personale rilettura anche delle regole religiose, pragmatica ed attenta al portafoglio. L’aspirazione è di avere abbastanza danaro per poter vivere soddisfando i propri desideri. Non a caso la salute è il bene primario irrinunciabile. Per cui sfugge ai più quale sia il grande vantaggio della democrazia (almeno nella forma di elezioni aperte a suffraggio universale). Il voto si riduce quindi ad una merce di scambio (non di rado l’unica disponibile), il cui vantaggio deriva unicamente dal prezzo e non a chi viene offerto.

Se hanno un fondamento di realtà le osservazioni fatte finora diventa chiaro che il successo della democrazia è direttamente proporzionale al tasso di scolarizzazione elevata ed alla dinamicità interna della società. Più scolarizzata è la popolazione più diffusa è la ricchezza; la maggiore dinamica sociale significa l’abbattimento delle barriere tribal-comunitarie che obbligano un figlio di contadini a rimanere contadino. Ma per aumentare scolarizzazione ed dinamicità si dovrebbero invertire le strategie-paese finora adottate: mettere l’offerta d’accesso universale ai servizi essenziali come priorità di ogni governo. E una simile decisione dovrebbe fare i conti con i convitati di pietra: lo stile di vita dell’occidente cristiano, dell’oriente shintoista e dell’arabia wahabbatista.

Chi è disposto a rivedere radicalmente il proprio tenore di vita per permettere ad un/a africano/a di considerare la democrazia un diritto e non un lusso?

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe