Cattivi guagliuni. LE FOTO

Prima premessa: la manifestazione del 15 ottobre scorso era una manifestazione a rischio.
I conoscitori della piazza, e non solo loro, sapevano, o quanto meno sospettavano, che qualcosa sarebbe accaduto. La gravità dei possibili eventi era il fattore incognita delimitato da una parte dall’entità del numero dei facinorosi e dalla loro organizzazione (rilevatasi puntigliosa e ben studiata), dall’altra dal grado di compressione che le forze dell’ordine avrebbero saputo opporre ai “rivoltosi” (rivelatasi insufficiente e disorganizzata).

 

 

Altra nota dolente: nelle ore precedenti la manifestazione, sul web si susseguivano voci sempre più insistenti di possibili scontri all’interno della manifestazione. Lo scopo? Dare un senso “materiale” all’indignazione, mettendo da parte slogan e politica, considerati oramai inutili e senza senso.

Al di là dei ragionamenti fatti da chi di competenza e dovere, una cosa è certa: i black block hanno avuto una grande libertà di movimento e quella che doveva essere una manifestazione pacifica è diventata una guerra vera e propria fra i gendarmi in nero e gli agenti.
Risultato finale: una città distrutta, la manifestazione dis-persa fra sampietrini, bombe carta, lacrimogeni, desolazione, orrore e paura.

E gli indignati che fine hanno fatto? Per la maggior parte dispersi, chi nelle retrovie della città, chi dietro cassonetti, chi detronizzato del suo scettro; indignati, e ancor più indignati, per quanto andava accadendo alla loro manifestazione.
Sorge una domanda: prevedendo la presenza di black block e attivisti vari, perché nelle strade del corteo si sono lasciati cassonetti, macchine e simili – potenziali strumenti di attacco e distruzione –?  Se fosse scoppiata la macchina in via Cavour cosa sarebbe accaduto, e chi incolpare?

Seconda premessa: quella di Roma non è stata una giornata di ordinaria follia.
Le tute nere (black block) si sono preparate, addestrate, hanno fatto scuola – come dice un componente, o presunto tale, della guerriglia romana intervistato dal giornale La Repubblica – in Grecia prima e in Val di Susa successivamente.
Nessun riferimento ai fatti di Genova del 2001, se non nel riconoscersi nel loro compagno di lotta Carlo Giuliani (diverse le scritte comparse nei muri della città: “Onore a Carlo Giuliani”; “Carlo Giuliani uno di noi”… )

Ma quelli erano altri tempi, là si manifestava per un unico obiettivo, qui invece erano differenti gli obiettivi, dal problema economico (comuni alle altre città del mondo), alla fiom, agli studenti, ai precari, al tav Torino-Lione.
Mischiare più voci non è stata una buona idea, soprattutto dopo quanto accaduto – e doveva essere un monito – sempre a Roma il 14 dicembre scorso, durante la manifestazione studentesca, finita anche lì in un bagno di lacrimogeni e distruzione (fu la prima in assoluto dei black block nostrani!); lasciando attonita un’intera popolazione ed il governo, che già in quei giorni navigava in pieno affanno.
Poi la storia mondiale ha conosciuto le rivolte dei paesi del Nord Africa, la rivolta popolare della Grecia, le rivolte in Siria, Yemen, la guerra contro Gheddafi, la rivolta londinese, per ritornare poi in Italia con i recenti fatti della Val di Susa, fra No Tav e polizia.

Unico comune denominatore non è la semplice violenza, ma l’ODIO, l’odio contro il SISTEMA, l’odio contro il capitalismo sfrenato, l’odio contro tutto ciò che reprime un’idea di socialismo assoluto in cui tutti devono poter vivere, in cui tutti devono avere la possibilità di reggersi in piedi con le proprie gambe, e se non è possibile lo stato assistenziale deve provvedere al sostentamento (ma se questo manca che fare?); odio contro il malgoverno dei ricchi che ingrassano le loro borse a scapito del cittadino; ed infine l’odio contro una politica che ha perso l’uso della parola sincera ed onesta, creando sempre più distanza fra la domanda del cittadino e l’offerta del welfare, le parole si sono sempre più arroccate nelle torri della dietrologia, della dissimulazione dei problemi, cercando tappabuchi sempre meno efficienti.
Ecco allora che Distruggere le vetrine delle banche o dei grandi marchi diventa la forma più opportuna di protesta, la forma più giusta contro slogan e parole, secondo questa frangia di disobbedienti sociali.
L’analisi non vuole essere una presunta difesa di questi facinorosi ma, la sola strada per capire e conoscere chi e cosa dietro queste maschere si nasconda, cosa conduce a simili estremismi.
Perché da quanto emerge sotto le maschere anti-gas si nascondono operai, studenti, precari, disillusi dell’ultimo momento, gente comune o se si vuole i classici ragazzi/e della porta accanto.
Non sono marziani né vengono da Marte sia ben chiaro, sono padri e figli di questa società che poco per volta li ha esclusi dalla stessa  per definirli inutili e costosi.

Nasce quindi l’esigenza – secondo questa frangia – di un riconoscimento, l’esigenza di sentirsi ATTIVI, e per farlo i vecchi sistemi della parola e della politica non sono più utili; ma la piazza romana ha anche detto che alcuni – pochi! -, tacitamente, hanno approvato l’ingerenza, riconoscendosi in azioni come questa, il cui fine ultimo è la delegittimazione di un potere e la legittimazione di un nuovo ordine cui far riferimento, il popolo.
Se questa idea delle multi voci della manifestazione non dovesse bastare – ritenuta forse riduzionista e banale -, si tenga conto di un altro fattore: in Italia vi è una generale repulsione nei confronti della politica; difficile se non impossibile riconoscersi oggigiorno in un politico, e checché se ne dica, i black block in questo conquistano un sacco di alleati.
Il “proselitismo” avviene probabilmente sul web o nei centri sociali, poco importa, il numero dei black block aumenta e sabato non erano pochi come si vuole far credere, spuntavano da ogni vicolo, questo è certo.
Berlusconi o Bersani, si prenda chiunque di questi nostrani politici, scoprirete che pochi si riconoscono totalmente in essi; per di più, il teatrino della politica italiana di queste ultime settimane ha accresciuto ulteriormente il distacco e dis-amore nei suoi confronti.

Quest’anomalia italiana  rafforza l’idea che il governo, questo governo, si è scollato, senza possibilità di ritorno, dalla sua società civile; una società che vive senza futuro, inglobata nelle retrovie, rinchiusa e destituita del suo potere sociale.
Un dato emerso in questi giorni nel dopo guerriglia è che la maggior parte dei facinorosi sono tutti giovani, studenti, operai, in prevalenza del sud ma non solo.
Rottura fra le parti sociali e la politica ma soprattutto rottura netta all’interno della stessa società civile, fra pacifisti e facinorosi, fra molotov e fiori di campo; una rottura insanabile fra le parti, perché l’uno non si riconosce nell’altro e viceversa, questo drammatico scollamento pare insanabile
La guerra è appena iniziata e forse la sua conclusione non è prossima come si spera; la questione ultima che trattiamo è semplice: considerato cha la distruzione fine a se stessa, o comunque la distruzione tout court, non conduce ad alcuna soluzione concreta se non alle fiamme – più volte è stato inneggiato lo slogan a Nerone e alla sua follia distruttiva (“brucia Roma qui è passato Nerone”, una delle scritte sui muri) -; e alla desertificazione della società stessa, la domanda che si rivolge a costoro è: cosa si prospetta nelle loro azioni? Dove si vuole arrivare? Come si costruisce un dialogo con chi non mostra volto o parola?

Li si definisce, allo stato attuale, semplici vandali. Di quel triste epiteto portano degnamente nome: fu il terzo sacco di Roma ed eravamo nel 450 d.c, e i Vandali distrussero la città per il solo gusto di farlo, ma erano barbari ed in-civili. Questi ragazzi no, fin troppo bene sono addentro alla civiltà. Appurato il loro distacco da ogni forma di civile pensiero, appurato che il sistema politico mondiale ha fallito miseramente, sia nella sua politica sociale che in quella economica, detronizzata la sua funzione guida, diventa inevitabile chiedersi cosa si propone; perché, se appurato tutto questo, rimane come unica alternativa la sola eversione dei black block, atta alla sola distruzione del sistema vigente, pare decisamente misera come soluzione.
Inclini al pensiero che per costruire si debba dialogare, si evince che la distruzione come atto unico non sia la soluzione migliore, o per lo meno quella in uso dal secondo dopo guerra in poi.
Sabato 15 ottobre Roma è diventata un campo di battaglia; la frase più comune fra i manifestanti: “inferno, qui è un inferno, mai vista una cosa del genere”.

L’obiettivo dei black block è stato raggiunto, conquistare la piazza, vittoria effimera perché al calare della sera la stessa seppur desolata, umiliata, distrutta e in lacrime è tornata in mano ai suoi legittimi proprietari, i cittadini.
Probabilmente la storia parlerà di questo atto vandalico come il primo tassello di una guerra. Che forse si appresta, stando agli slogan annunciati; ad oggi non ci è dato saperlo. Ma di fatto, ciò che resta vivo nella memoria di tutti noi, oggi, sono le desolanti immagini di una città calpestata senza dignità alcuna dalla disobbedienza in-civile dei black block.
Roma, ora, chiede rispetto e silenzio.

 

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