Cinema: “American life”, ovvero “via dagli stereotipi”. Riflessioni su una fuga senza fine

Già uscito a metà dello scorso dicembre ed ampiamente recensito “American Life” è uno di quei film per cui vale la pena di tornarci sopra, rimeditarlo e riandare a vederlo nel suo alveo naturale, la sala cinematografica con il pubblico.

La storia è nota. Burt e Verona sono due giovani trentenni che aspettano la nascita del loro primogenito. Ed un evento così importante merita di scegliere con cura il luogo dove esso avverrà. E’ il titolo originale, scempiato nella traduzione italiana, a darci il senso della ricerca dei due protagonisti “Away we go” (Andiamo via). Via dalle convenzioni, via dagli stereotipi, via dalla falsa modernità, via dalle deformazioni della famiglia moderna, per ritrovarsi dove? Punto e da capo pressoché alla partenza ma con nuove consapevolezze e una ritrovata motivazione a far da soli, a concentrarsi sulle proprie forze.

“American Life” non è american life (cioè una faccenda prettamente americana) e lo si vede già dalle prime inquadrature: una Volvo scassata, una casetta normale, strade strette, paesaggi più da Foresta Nera che da Oregon. Il baricentro del film viene subito dichiarato: non è l’America, è la Famiglia.

E allora Burt e Verona, in questo peregrinare mesto e attonito, nelle varie stazioni della famiglia americana incontrano genitori, parenti, amici con la speranza di trovare in qualcuno di questi luoghi il nido perfetto, l’Eden dove far nascere il proprio figlio. Ma dopo aver visto, vissuto e constatato il loro impulso è sempre il medesimo, scappare via scandito da dei cartelli in bianco e nero che ne certificano la fuga: Away to Tucson, Away to Miami, Away to Montreal e così via, ad enumerare le possibilità bruciate, le aspettative disattese.

La galleria di mostri che esce da questo viaggio on the road nella società americana è spaventevole: genitori egoisti pronti a trasferirsi nel paese dei loro sogni (il Belgio, sic!) piuttosto che stare vicino al nipotino, parenti con turbe psichiche preoccupanti, amici proiettati in un mondo new-age ottuso e autoreferenziale, famiglie che collezionano bambini adottati come figurine, un’anarchia dei sentimenti e di come si concepisce il nucleo familiare spiazzante e per niente rassicurante.

Burt e Verona, come nel gioco dell’oca, tornano al punto di partenza affettivo se non altro, alla casa dei genitori di lei, da riaprire, far prendere aria ed allestire in attesa del nascituro. I protagonisti in una scena calda e commovente si promettono amore e rispetto reciproco e questo basta, non serve altro per garantire al bimbo che verrà un futuro meno incerto.

Non è possibile non nominare anche il film precedente di Sam Mendes “Revolutionary Road” dove il regista scandaglia la famiglia degli anni ’50, lì dove ci sono i germi delle storture di questi anni. La differenza sui problemi della coppia nella società moderna la fa il messaggio finale. In “Revolutionary Road” è il pessimismo che prevale, in “American Life” i toni sono decisamente positivi a patto di contare su se stessi e sul coraggio che la forza di un amore autentico può infondere.

Il film è finito, si accendono le luci, gli spettatori sono soddisfatti e anche questo il cronista deve registrare, poi constatato che fra di essi vi era anche il giornalista-filosofo Eugenio Scalfari ed il conte Ruspoli si può constatare con piacere anche la trasversalità dell’opera.

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