ROMA – Le recenti stime della Banca dei Regolamenti Internazionali ci dicono che dal 2007 al 2012 il debito aggregato globale, comprendente non solo quello del settore pubblico degli Stati ma anche quello delle famiglie e delle imprese non finanziarie, è cresciuto del 20% in rapporto al Pil, cioè di ben 33 trilioni di dollari!
E’ cresciuto di circa il 40% negli Usa, di oltre il 50% in Francia e di circa il 65% nel Regno Unito. In Italia è aumentato del 25%. Pur se nel mezzo di un reale sviluppo economico, anche la Cina ha registrato una crescita di oltre il 50% del proprio debito aggregato in rapporto al Pil che, però, riguarda esclusivamente le famiglie e il settore delle imprese non finanziarie.
Sono dati che preoccupano per il loro potenziale destabilizzante. In Cina, anche se il rapporto debito pubblico/Pil è stabile, si teme per la tenuta dei mercati interni a causa degli andamenti di alcuni settori economici.
La Bri, nel suo rapporto annuale 2013, afferma a chiare lettere che si è perso tempo con le inconcludenti politiche finanziarie e monetarie attuate nei vari Paesi. I risultati sono stati a dir poco deludenti e non è stato messo a frutto il vantaggio temporale per realizzare i cambiamenti necessari. La famosa frase “whatever it takes” (tutto il necessario), usata da Bernanke e da Draghi per fronteggiare la più grande crisi finanziaria e bancaria della storia, conteneva soltanto l’illusione di una volontà di azioni e di soluzioni che in realtà non ci sono mai state.
Al contrario, l’effetto delle politiche di liquidità facile e dei bassissimi tassi di interesse è stato quello di rinviare ogni decisione importante, a partire dalle riforme del sistema finanziario globale, dal contenimento del deficit di bilancio e dalla riduzione del debito. Anzi molti hanno preferito aspettare una improbabile rivalutazione dei loro asset per mettere a posto le proprie situazioni patrimoniali devastate dalle perdite e dai buchi generati dalle speculazioni e dalla crisi. In questo contesto anche i bilanci delle banche centrali dei Paesi sia avanzati che emergenti sono passati dai 10,4 trilioni di dollari del 2007 ai 20,5 trilioni attuali, pari al 25% del Pil mondiale.
Perciò la Bri sostiene che la politica degli stimoli all’economia da parte della banche centrali è finita e che una sua possibile continuazione rappresenterebbe un pericolo per l’economia. Per la Banca di Basilea perciò si aprirebbe una fase molto difficile di riequilibrio del tasso di interesse con rischi di instabilità finanziaria non indifferenti. Per esempio, un aumento del tasso del 3% negli Usa comporterebbe una perdita di valore di 1 trilione di dollari, pari al 7% del Pil, per i detentori di bond del Tesoro. Per i detentori di obbligazioni della Francia, del Giappone, dell’Italia e del Regno Unito la variazione di valore del debito sarebbe molto più pesante, tra il 15 e il 35% del Pil dei rispettivi Paesi.
Pur non augurandosi una tale situazione, la Bri ricorda quanto accadde nel 1994 quando il tasso di interesse crebbe velocemente del 2%. Un simile evento oggi creerebbe gravi problemi di stabilità per l’intero sistema. I rimedi della Bri alle politiche finanziarie e monetarie fallimentari comunque non ci convincono e rischiano di aggravare la situazione. Essa individua nella rigidità del mercato del lavoro e dei prodotti la causa principale della mancata ripresa e sollecita di conseguenza i governi a riformare questi mercati e a ridurre anche le spese pensionistiche e del welfare. Noi riteniamo che sia irresponsabile continuare scaricare le responsabilità ed il peso della crisi e della mancata ripresa sul mondo del lavoro e dell’impresa e sui pensionati. Anche una deregulation tout court nel mercato del lavoro e nella commercializzazione dei prodotti e dei servizi sarebbe deleteria.
Proporre una simile medicina non aiuterebbe il malato ma aggraverebbe la crisi sociale, occupazionale ed imprenditoriale.