Taranto, stabilimento Ilva sequestrato – IL RESOCONTO

Dopo giorni di snervante attesa la bomba è scoppiata. Il provvedimento depositato in cancelleria dal Gip Patrizia Todisco è stato reso noto. Il giudice ha firmato il sequestro, senza facoltà d’uso, di ben sei reparti dell’Ilva, l’acciaieria più grande d’Italia con sede a Taranto. La produzione è bloccata. Lo sarebbe stata anche se la sola area a caldo fosse stata compromessa, dato il ciclo continuo del processo industriale siderurgico. Ma i sigilli sono stati apposti quasi ovunque: cokerie, area agglomerazione, area altiforni, acciaierie, gestione materiali ferrosi e parchi minerari. La bomba è scoppiata. Otto indagati hanno ottenuto gli arresti domiciliari, tra di essi “Patron Ilva” ossia Emilio Riva, presidente della Ilva S.p.a. fino al maggio 2010, Nicola Riva, il figlio che gli era succeduto e che due settimane fa aveva dato le dimissioni, Luigi Capogrosso, ex direttore del siderurgico di Taranto. E poi i responsabili dell’area sottoprodotti Ivan Di Maggio e dell’area agglomerato Angelo Cavallo. Gli altri tre arresti erano più inaspettati: Salvatore D’Alò, capo delle acciaierie 1 e 2 dell’Ilva, Salvatore De Felice, attuale direttore del siderurgico dopo le dimissioni di Capogrosso, e Marco Aldelmi, responsabile dell’area parchi minerari. Come a dire, il disastro ambientale c’è e le responsabilità sono chiare. La bomba è scoppiata.

Da quando è nato, con gestione pubblica e con il nome di Italsider, lo stabilimento ha risucchiato come un buco nero la città dei due mari, annullando la possibilità di altre economie e facendo convergere su di sé l’occupazione. I territori circostanti sono infatti talmente inquinati da aver spinto l’azienda sanitaria locale ad abbattere parecchi capi di bestiame e ad impedirne l’utilizzo per la pastorizia. Allo stesso tempo questo è il secondo anno che la produzione tarantina di mitili, ossia di cozze, unica al mondo per le specificità saline dell’acqua del Mar Piccolo, è stata requisita dal mercato. Economie tradizionali che si sgretolano a causa dell’agglomerato industriale di cui l’Ilva è il braccio maggiore, ma non certo l’unico. Ma è stata travolta soprattutto la vita dei cittadini, delle persone, dei corpi. E non sono solo i muri rossi di ferro, le polveri sui balconi, la strana “nebbia” di cui è impregnata l’aria nei giorni di vento a dimostrarlo. Lo sono le morti frequenti, gli aborti spontanei, le leucemie infantili. Tutti a Taranto ne sono consapevoli, tutti hanno qualche morte “strana” in famiglia, e quando se ne chiede la causa ci si può sentir rispondere “Indovina…”.

Allora questa bomba che esplode potrebbe apparire una buona notizia. E invece no. A volte non c’è niente di più terribile che veder realizzarsi i propri sogni. Da giorni gli operai dell’Ilva vivono nell’angoscia l’attesa di questo verdetto, allertati dalle voci di corridoio partite dai piani alti. E ieri alle 14,30 un lungo corteo spontaneo ha bloccato la statale Appia partendo dalle porte dell’Ilva fino alla prefettura, a ricordare la “marcia dei settemila” che il 30 marzo scorso aveva riempito di tute dai diversi colori le strade di Taranto. I tre sindacati interni Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm hanno lanciato lo sciopero ad oltranza. Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti hanno espresso “grande preoccupazione per la drammatica situazione occupazionale” e chiedono alla politica di garantire che “il diritto al lavoro non sia messo in discussione”. Da parte sua il Ministro dell’Ambiente Corrado Clini si è affrettato a garantire la richiesta di un riesame del provvedimento dalla massima urgenza, mentre il Presidente della Camera Gianfranco Fini ha invitato il Governo a riferire il prima possibile, forse martedì, sulla situazione dell’Ilva. Il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola ha annunciato la costituzione della stessa come parte civile del processo sull’Ilva.

Mentre la politica cerca di farsi spazio nella vicenda, ignorando la sua precedente assenza e il conflitto di poteri a cui oggi andrebbe incontro con qualsiasi provvedimento, gli operai rimangono nelle strade. La prima assemblea si è tenuta alle sette di questa mattina, presto, perché tanto non si riesce a dormire, e perché quello era il primo turno di lavoro dello stabilimento che non si vuole credere morto. Ci si appella alla comprensione della Todisco, quasi fosse un politico con un progetto territoriale e non un giudice con una sentenza. La confusione sui responsabili, sulle cause, sulle soluzioni è grande, forse perché lontani, avvenuti in altri luoghi, in altri momenti. Se si fosse fatta prima una conversione dell’impianto, se i controlli fossero stati maggiori già venti anni fa, se il complesso fosse stato più lontano dalla città, se i parchi minerari fossero stati coperti…ma le inadempienze passate cadono sul presente, ed oggi gli operai sono costretti in una morsa terribile: scegliere tra il male minore, svendere il diritto alla salute per quello al lavoro, non meno importante, ma solo più urgente. Oggi gli operai lottano in difesa dei padroni, per evitare di farli trasferire in altri paesi, sembrano disposti a rinunciare alle garanzie della stessa Costituzione fondata sul lavoro che abbiamo. E non ne hanno colpa. Quando una bomba esplode, fosse anche per aprire un varco verso la luce, i detriti sono tanti, e possono chiuderci in una nuova stretta.

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