Sui temi del lavoro oltre il referendum. Batta un colpo il centrosinistra

ROMA – Si è avviata da oltre una settimana la campagna per la raccolta di firme a sostegno di due Referendum abrogativi in tema di lavoro: l’art. 8 della manovra di agosto 2011 e le modifiche apportate all’art.18 dello Statuto dei lavoratori.

Una iniziativa rilevante per le materie in discussione, tanto più nel contesto di fortissime tensioni che investono e penalizzano il mondo del lavoro ormai da lungo tempo. Eppure tutto si sviluppa quasi in clandestinità. Di ciò si può essere amareggiati e dispiaciuti, ma non sorpresi. E’ la dimostrazione, prevedibile, del fatto che l’iniziativa referendaria è sbagliata.
Un giudizio tanto netto, tuttavia, non deve generare equivoci: l’art. 8 è effettivamente il prodotto della patologica e virulenta ossessione antisindacale dell’ex ministro Sacconi. Una norma che consente di derogare tanto alla contrattazione collettiva quanto alla legislazione; uno sfregio velenoso alla nozione stessa di “diritto del lavoro”. La nuova formulazione dell’art. 18 dello Statuto è, in sé, molto meno insidiosa, tuttavia trae origine da una mistificazione ideologica che attribuisce alla “tutela reale” contro i licenziamenti senza giusta causa, indimostrabili effetti negativi sullo sviluppo e sulla crescita delle imprese.
Dunque l’errore non sta nell’opporsi alla strategia di attacco ai diritti dei lavoratori, ispirata dalla ideologia neoliberista, peraltro ormai palesemente sconfitta nei fatti in quanto, per un verso, fattore essa stessa di inasprimento della crisi, e, per l’altro, causa di ulteriore iniquità sociale. L’errore sta nella illusione semplificatoria implicita nella ipotesi referendaria; come dire: anni di lotte contro le politiche economiche e sociali dei governi Berlusconi, contro la prepotenza degli imprenditori alla Marchionne, per correggere i vincoli imposti da una Europa che pare aver ripudiato il modello sociale che ne ha fatto l’area più evoluta del mondo, per contestare le pulsioni liberal-conservatrici del governo dei tecnici, non sono bastati ad imporre una via alternativa per contrastare la crisi. Anzi, la crisi ha fornito il pretesto per negare anche alcuni dei cardini della cultura del lavoro a cui si ispira la nostra stessa Costituzione. Si tenti, dunque, questa estrema ratio, poi che altro non è bastato.

Si dirà, si è  affermato da parte dei promotori, che non è questo lo spirito con cui l’iniziativa è stata promossa, che si tratta di un utile strumento di pressione per ottenere correzioni sostanziali delle norme in questione, anche in vista dei possibili cambiamenti del quadro politico che potranno derivare dalle ormai prossime elezioni; considerazioni fondate, che tuttavia non riescono a sottrarsi a quella sensazione da ultima spiaggia, che non è mai un buon viatico per le iniziative future.
E soprattutto, a me pare, promuovere oggi, alla vigilia di un appuntamento cruciale come le prossime elezioni politiche, un referendum abrogativo di quelle norme ingiuste (con tutta l’aleatorietà del possibile esito, considerate le ormai troppe esperienze infauste) rischia di essere operazione minimalista, tutt’al più “di bandiera”. O di apparire puramente strumentale; come dire: si raccolgano le firme, ma con l’obiettivo di non giungere al voto.

Ebbene, sui temi del lavoro, con tutta la drammaticità che oggi li caratterizza, non è più tempo di tatticismi. Temo che iniziative siffatte non abbiano oggi la capacità di coinvolgere e mobilitare nemmeno i lavoratori più direttamente esposti ai possibili effetti di quelle norme.
Altro si può e si deve fare; sarebbe salutare che il Sindacato imponesse alla coalizione di centro sinistra e ai singoli partiti che la compongono un confronto molto più organico e ampio, non occasionale, sui temi del lavoro, su come restituire loro la giusta centralità, sulle strategie per rilanciare l’occupazione, ed anche, ovviamente, sulle tutele da garantire o ripristinare. E che gli sviluppi e gli esiti di un simile confronto fossero portati all’attenzione dell’opinione pubblica, dei lavoratori in primo luogo.  Il futuro del paese e del suo governo è oggi in discussione, la partita è aperta; bisogna dunque, anche da parte del Sindacato, allargare il campo di gioco, oltre la riproposizione di ricorrenti e pur necessarie mobilitazioni (scioperi, manifestazioni) contro le politiche recessive dell’attuale governo.
Come si comprende le considerazioni qui esposte valgono, a mio avviso, soprattutto da un punto di vista propriamente sindacale. Forse una formazione politica può, per sua stessa natura, essere più incline anche ad iniziative “di bandiera”; ciò che in ogni caso non muta è la valenza strategica. In questo caso scarsa.

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