ROMA – Tutti i disastri cui stiamo assistendo da un anno a questa parte sono, oggettivamente, frutto di un assunto inoppugnabile: la classe dirigente dell’ultimo ventennio, nel complesso, ha fallito.
Per carità, a tal proposito, è doveroso tracciare una netta distinzione tra la catastrofe del berlusconismo e i pur non piccoli errori commessi, a suo tempo, dal centrosinistra: dalla mancata approvazione di una seria legge sul conflitto d’interessi (finalmente riproposta in questi giorni da Letta) al folle inseguimento della propaganda leghista che culminò nell’approvazione della famigerata riforma del Titolo V della Costituzione, oggi da tutti rinnegata ma per anni esaltata come il non plus ultra e portata ad esempio della via progressista al federalismo. Senza dimenticare l’affossamento dei due governi Prodi, le divisioni, i rancori e le invidie reciproche che hanno caratterizzato la storia della sinistra italiana in questi vent’anni, procurandole numerose sconfitte e, soprattutto, condannando il Paese ad essere governato da una delle peggiori destre d’Europa.
Così, quando agli sbagli compiuti al governo, ai litigi e alle fratture spesso insanabili di cui si è reso protagonista il ceto politico riformista si è aggiunta una devastante crisi economica, sociale, culturale e civile ma, più che mai, morale, ecco che lo stesso non ha avuto scampo, travolto dalla furia grillina alle elezioni del febbraio 2013 e spazzato definitivamente via dalla rottamazione renziana dello scorso 8 dicembre.
Una ascesa apparentemente inarrestabile
Analizzando i due fenomeni, è d’obbligo premettere che hanno ben poco in comune: pur essendo entrambi piuttosto irruenti e assai poco simpatici, la vera differenza tra di essi è che il primo mira unicamente a distruggere il sistema mentre il secondo ha delle sia pur vaghe ambizioni riformatrici.
Partendo da questo concetto, tuttavia, il punto su cui è opportuno focalizzarsi è un altro, ossia i processi politici che sono alla base di quest’ascesa apparentemente inarrestabile e, al contrario, quasi banale, arginabile se solo quella stessa classe dirigente non avesse perso troppo tempo a guardarsi l’ombelico e a litigare sul nulla, se solo avesse tradotto in una riforma concreta l’accorato appello rivoltole dal presidente Napolitano per tutta la scorsa legislatura a modificare l’orrido Porcellum, se solo non avesse dato l’impressione di una insopportabile e sempre più inaccettabile vaghezza, indeterminatezza, carenza di grinta, di coraggio, di determinazione e di passione civile, se solo avesse rispettato alla lettera i princìpi costituzionali e, specie a sinistra, non avesse tentato più volte di trasformare quello che attualmente è un pregiudicato in attesa di essere trasferito ai domiciliari o ai servizi sociali in un padre costituente, come se stessero parlando con un Pertini o con un Calamandrei.
Quattro lustri di errori e di mancanze
È qui, in quattro lustri di errori e mancanze, che si è annidata la rabbia e il desiderio di vendetta di una Nazione che, nel frattempo, è arretrata su tutti i fronti, vittima dell’immobilismo, di norme arcaiche, di una burocrazia asfissiante, di una giustizia lumaca, di un processo di deindustrializzazione senza precedenti, di un impoverimento che sta mettendo a repentaglio il futuro di almeno tre generazioni e di uno sfarinamento del sistema politico che, inevitabilmente, ha finito col coincidere con lo sfilacciamento del tessuto sociale e civile dell’intera comunità. Perché mai altrimenti un ex comico, con a disposizione un guru capellone dai tratti tuttora indecifrabili e un drappello di giovanotti di buoni sentimenti ma per lo più inadatti a vivere un’esperienza politica, sarebbe riuscito a conquistare un risultato che ha costretto decine di studiosi, sociologi e politologi a rivedere le proprie analisi e le proprie considerazioni in merito allo stato di salute della società italiana. E mai il primo partito del Paese, erede della tradizione di due partiti solidi e strutturati, ricchi di cultura, storia e tradizioni, si sarebbe lasciato conquistare da un ambizioso sindaco, abilissimo sul piano della comunicazione ma le cui idee e i cui programmi per rilanciare una Nazione sfibrata sono tuttora ignoti a molti, compresa una buona parte dei suoi elettori alle Primarie.
Siamo entrati in una sorta di “damnatio memoriae”
Se tutto questo è potuto accadere è perché, da tempo, oramai, nel rapportarci alla politica siamo usciti collettivamente dal piano della razionalità per entrare in quello dello sfogo, della volontà di catarsi, dell’attrazione fatale verso il cambiamento totale, radicale, che non lascia traccia di ciò che è stato prima, in una sorta di “damnatio memoriae” che è quanto di più dannoso possa esistere in un ambito delicato ed esposto a continue fluttuazioni quale quello della gestione della cosa pubblica.
Ma tant’è, e qui subentra pure un fatto anagrafico. Gran parte della colpa di questo sfacelo, infatti, è da attribuirsi al berlusconismo che pochi giorni fa ha festeggiato il proprio ventesimo compleanno, inducendo tutti noi a riflettere su com’eravamo vent’anni fa e costringendoci ad accorgerci, con profondo sgomento, che quasi non ce lo ricordiamo più, tanto siamo oramai assuefatti al suo modello politico, televisivo, sociale, comunicativo, tanto è entrata in noi la sua rivoluzione culturale e pedagogica che, in realtà, è una regressione su tutta la linea ma pochi se ne sono accorti e quei pochi, negli anni, sono stati prontamente messi nelle condizioni di non arrecare disturbo al grande disegno arcoriano.
I quarantenni nella regressione del berlusconismo
E così oggi ci troviamo alla testa di quasi tutti i partiti quei quarantenni che avevano dieci anni quando impazzavano le tivù commerciali, il liberismo selvaggio del duo Reagan-Thatcher e la Milano da bere di Craxi e andavano all’università il giorno del celebre videomessaggio del Cavaliere. Insomma, una generazione che in questa costante e inarrestabile regressione complessiva ci è cresciuta dentro, volente o nolente, subendone l’influenza malefica e venendone inevitabilmente contagiata.
Da qui la disillusione, l’idea di essere in una sorta di labirinto: senza speranze, senza prospettive, senza alcuna possibilità di scampare al proprio destino per il semplice motivo che non si è mai conosciuto altro, non si è mai avuta la fortuna di partecipare a una di quelle assemblee anni Settanta che, al massimo, nel caso dei quarantenni attuali, appartengono ai racconti dei fratelli maggiori, gli ultimi ad essersi in qualche modo salvati, ad aver conosciuto un contratto, un posto sicuro, la possibilità di costruirsi un futuro e una famiglia.
Il vuoto, il nulla,la dissoluzione
Poi è iniziato il vuoto, il nulla, la dissoluzione e, lentamente, ha inghiottito anche quella classe dirigente che nel ’68 sognava un mondo migliore e poi, una volta entrata nella stanza dei bottoni, si è resa conto che i sogni vanno bene a vent’anni ma poi bisogna fare i conti con la cruda realtà, finendo col farsi travolgere da un’ondata di cinismo e di insopportabile pragmatismo da due soldi che ha disumanizzato ogni cosa, persino i rapporti fra le persone e, naturalmente, le organizzazioni politiche e sindacali.
E domani tocca a noi, a chi andava all’asilo quando Berlusconi disse di amare l’Italia e “scese in campo”. E a volte vien quasi da pensare che forse siamo stati fortunati perché, quanto meno, qualunque strada decideremo di intraprendere, la nostra generazione il berlusconismo lo ha conosciuto quando era ormai logoro, quando il modello liberista iniziava a mostrare la corda, quando in America veniva eletto il primo presidente afro-americano, ed è facile comprendere il furore della generazione di mezzo, priva della spensierata serenità dei propri padri e priva anche della prospettiva di spazzare via le macerie e ricostruire un progetto di comunità solidale dei propri figli.