Attività estrattiva in Italia: 80 piattaforme e 722 pozzi attivi. In arrivo nuove esplorazioni in zone di pregio ambientale

ROMA – Ora che è estate, ammiriamo più che mai il nostro mare, il nostro paesaggio costiero, tanto apprezzati nel mondo intero, ma non sappiamo che essi sono in pericolo a causa di scelte scellerate, che non tengono conto dell’enorme patrimonio naturale di cui disponiamo.

Già oggi, grazie ai vari provvedimenti degli ultimi governi, è “aperta” alle attività minerarie il 40% della superficie totale dell’intera piattaforma continentale italiana. Le aree di concessione in esclusiva, che coinvolgono 2303 comuni (mentre 501 hanno pozzi attivi) sono pari a 1.825.400 ha. Le piattaforme di produzione sono 130; i pozzi produttivi sono 976, quelli potenzialmente produttivi 601.

Di recente, proprio mentre usciva il Rapporto Ambientale 2013 attività oil & gas exploration & production di Assomineraria, il governo dava nuovo impulso all’attività di esplorazione in mare, avviata dall’ex ministro Passera, durante il governo Monti, rilasciando nuove concessioni in zone di grande pregio ambientale e vitali non solo per l’ecosistema marino dell’intero Mediterraneo ma anche per la pesca e per il turismo.

Particolarmente generoso è stato il governatore della Regione Sicilia, Crocetta. Sulle coste siciliane sono già undici i permessi di ricerca concessi, mentre diciotto istanze sono ancora in attesa di valutazione: si va dalle spiagge dorate di Marsala e Sciacca, fino ai mari dell’isola di Pantelleria e di Favignana, per finire ad aree tutelate della rete “Natura 2000”, tra Gela e Licata. Solo a largo di Pozzallo vi saranno ventuno pozzi.

Non va meglio nell’Adriatico e nella costa ionica con il Golfo di Taranto.

E dire che per l’off-shore è previsto un segmento “tax free”, ovvero l’esenzione da qualsiasi imposta fino a una soglia minima di produzione. Ma tant’è, tra on-shore e off-shore la superficie interessata da attività potrebbe arrivare presto a 65.321 chilometri quadrati, ossia con un incremento di 42.869 chilometri quadrati.

Scelte che si confermano come un salto nel buio, proprio alla luce dei dati pubblicati da Assomineraria. Quest’ultima dichiara per il 2012 una produzione di 5,4 milioni di tonnellate di Olio combustibile e di 8,5 miliardi di mc di gas naturale, pari al 7% del fabbisogno nazionale di idrocarburi, per un fatturato di circa 7,3 miliardi di euro, con investimenti per oltre 1 miliardo, di cui 950 milioni in attività di esplorazione, produzione e stoccaggio, 300 milioni spesi in ricerca. Una produzione che ha coperto il 6,3% della bolletta energetica.

Numeri che potrebbero apparire importanti, ma che al confronto con quelli delle rinnovabili – che contribuiscono a soddisfare ormai il 39,8% della domanda di energia, pari a 10miliardi di import energetico e che hanno contribuito nel 2012 a far scendere dell’11,4% i consumi di petrolio che ammontavano a 63mln di tonnellate – appaiono sotto una luce differente, considerato anche il diverso impatto sull’ambiente.

Dai dati presenti nel Rapporto si evince che la produzione in tutti gli impianti, sia on-shore (ossia a terra) che off-shore (in mare), ha una durata piuttosto breve. Segno che i giacimenti sin qui esplorati sono piuttosto piccoli, né potrebbe essere diversamente, considerato che l’Italia è una terra geologicamente giovane, eppure Assomineraria si spinge a dire che nel nostro sottosuolo vi sarebbero le riserve di idrocarburi “più importanti in Ue, dopo il Mare del Nord”. Una contraddizione che, forse, si spiega alla luce degli interessi anche finanziari che si muovono dietro il mondo del petrolio.

Il governo Monti puntò molto sul tema della produzione di idrocarburi varando la Strategia Energetica Nazionale (SEN), che prevedeva entro il 2020 il raddoppio della produzione italiana di Olio e Gas, portandola dal 7 al 14% del fabbisogno energetico nazionale nonché la creazione di una sorta di hub italiano in cui convogliare gas dal sud del Mediterraneo, con un investimento di 15 miliardi di euro, che avrebbe dovuto generare ulteriori 25.000 posti di lavoro, oltre gli attuali 13.000 (indotto compreso).

Al contempo, il ministro delle attività produttive introdusse pure una semplificazione delle procedure per ridurre i tempi necessari per ottenere i titoli autorizzativi, questo anche in ottemperanza al protocollo Ue sull’off-shore. Viceversa, non vennero e non sono stati adottati successivamente strumenti di partecipazione e pianificazione, anch’essi previsti dalle direttive europee, come ad esempio il Marine special planing.

Eppure i fattori economici in gioco sono diversi. Visto che, ad esempio, in caso di incidente grave sulle piattaforme off-shore, essendo il Mediterraneo un mare chiuso, vi sarebbero gravissime ripercussioni non solo sul piano ambientale ma anche a danno di settori economici di tutto rilievo per l’Italia, come la pesca con i suoi 28.400 addetti, il turismo che conta 2,5 milioni di occupati e gran parte dell’agricoltura, che prospera lungo costa, anche qui parliamo di 850.000 persone. Numeri ben più importanti di quelli del settore E&P (Exploration and Production).

Sempre in base alla SEN, varata dal governo Monti, dovrebbero più che raddoppiare le imposte e le royalties versate dagli operatori allo Stato e agli enti locali interessati (dal 7-10% al 23%), rispettivamente per 2 miliardi e 630 milioni. Ma le Regioni a statuto speciale, come la Sicilia, possono determinare importi diversi  e così le compagnie hanno chiesto e ottenuto dal governatore Crocetta, la riduzione delle royalties per gli impianti on-shore dal 23 al 13%.

Sia come sia, le royalties italiane sono tra le più basse al mondo, se solo si pensa che in Russia arrivano fino all’80% della produzione. Nel 2012, sono stati versati alle Regioni e ai comuni coinvolti rispettivamente 664 e 101 milioni, che avrebbero dovuto essere investiti, oltre che nel monitoraggio ambientale, in progetti per lo sviluppo economico e per l’occupazione locale. Ma è proprio così? Basta farsi un giro per i comuni coinvolti nell’attività estrattiva in Basilicata (che prende il 7% di royalties più un’accisa del 3%) per avere una risposta.

Ma quello degli idrocarburi rischia di essere un settore pericoloso anche per i propri occupati. Nel Rapporto vengono sciorinati dati molto dettagliati sulla sicurezza, che sembra essere un tema ben attenzionato, eppure, nonostante il calo di produzione e di occupati, nel 2012 c’è stato un aumento degli infortuni con un picco di 16 per quelli gravi. Inoltre, nonostante le emissioni inquinanti degli impianti, nel Rapporto non emergono dati relativi al monitoraggio delle condizioni di salute degli addetti né sulle eventuali cause di morte degli stessi.

Quegli stessi governi che hanno varato la SEN, e che stanno dando nuove autorizzazioni per le esplorazioni, non fanno nulla per la salvaguardia dell’ambiente e per prevenire eventuali incidenti gravi. Infatti, ad oggi non è stata ancora recepita dall’Italia la Direttiva 2013/30/UE, messa a punto dal Parlamento europeo per scongiurare incidenti come quello sulla piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum nel Golfo del Messico. Finora, per il recepimento della predetta Direttiva è stato istituito soltanto un tavolo presso la direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche (DGRM) del Ministero dello sviluppo economico.

Eppure, nello stesso Rapporto si afferma che dal 2008 al 2012 si sono verificati sversamenti in mare per 47 mc pari a 40 tonnellate (ma v’è chi parla di 162.200 tonnellate sversate nelle acque territoriali italiane). Viceversa, non si fa menzione delle attività di manutenzione degli oleodotti e dei metanodotti, tema assai rilevante alla luce di quanto accadde nel 2008 a Bodo in Nigeria, dove per almeno dieci giorni vi fu una fuoruscita di petrolio quotidiana di 4.300 barili, che ha sconvolto definitivamente l’ecosistema e la vita dei 69.000 abitanti della zona, la cui unica fonte di sostentamento era la pesca. Secondo esperti internazionali, la marea nera a Bodo ha causato la più grande perdita di mangrovie di sempre, inquinando circa seimila ettari di costa. L’ecosistema marino è devastato, alcune specie ittiche non ci sono più.

Per finire, il tema tanto discusso quello della sismicità indotta. Il Rapporto non ne parla, ma forse avrebbe fatto meglio ad affrontarlo, anche alla luce delle forti recenti polemiche e preoccupazioni su questo aspetto e della circostanza che in alcuni luoghi di estrazione, come la Val d’Agri, sono state poste delle stazioni di rilevamento della micro sismicità. Se è del tutto impensabile una sismicità a grandi distanze, evidentemente non possono escludersi fenomeni di piccola rilevanza nei pressi delle zone di estrazione.

Abbiamo provato a porre dei quesiti su questi argomenti alla società che ha stilato il Rapporto per Assomineraria ma ci è stato risposto che: “Grazie per le domande che avete mandato. Non ci troviamo però nella posizione di rilasciare commenti sugli aspetti economici e politici dell’argomento … Se vi interessa potremmo rispondere a domande sul metodo e la tecnica del Rapporto Ambientale. Altrimenti inoltreremmo queste domande direttamente ad Assomineraria”.

Abbiamo replicato dicendo che sì, che eravamo interessati alle risposte di Assomineraria. Le risposte, però, non sono mai arrivate.

Ci appare abbastanza chiaro che, ancora una volta, in Italia si pensa a un modello di sviluppo non sostenibile.

E dire che ci sarebbero tutte le premesse, fattori ambientali e know how, per varare un Green New Deal.

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