“La buona scuola” di Renzi? Da bocciare senza appello

ROMA – Povera scuola, vien da pensare leggendo il documento che il governo pone alla base della sua “Riforma”. Una definizione che, se riferita al documento governativo intitolato La buona scuola, appare del tutto fuori luogo, perché completamente priva di una visione strategica e innovatrice. Non si può definire riforma una serie di provvedimenti che tentano di risolvere e male i mali endemici della scuola italiana: precariato, strutture e risorse inadeguate, macchina burocratica mastodontica e lenta, ecc.

Gli estensori sembrano lontani anni luce dai riformatori dell’istituzione scolastica del passato, che almeno un’idea di società e di obiettivi conseguenti li avevano, anche se non sempre potevano risultare tutti condivisibili. Scorrendo le varie riforme intervenute nel tempo sull’istruzione in Italia, in ognuna non è difficile cogliere almeno un lato positivo, un progetto. La proposta attuale, invece, sembra fatta da un extraterrestre, che non sa cosa sia l’istruzione, che ignora i cambiamenti socioculturali in atto, che pensa di poter  risolvere problemi annosi con un po’ di demagogia spiccia. Se li contestualizziamo, al confronto, tutti hanno fatto meglio nel loro tempo.

Innanzitutto, il liberale Gabrio Casati, che nell’Italia povera e ignorantissima degli anni dell’unificazione, nel 1857 (rectius: 1859), riformò l’intero ordinamento scolastico, ponendo in capo allo Stato il ruolo normativo, la gestione diretta dell’istruzione e la potestà di rilasciare diplomi e licenze, in sostituzione della chiesa cattolica. A seguire, Michele Coppino, che nel 1877 estese l’obbligo scolastico a tre anni, introducendo per primo sanzioni per chi lo disattendeva. Con la sua legge entrarono nell’ordinamento scolastico materie quali l’educazione civica (di cui si è persa ogni traccia nei programmi attuali) e si dava molto spazio alle materie scientifiche. E poi, Vittorio Emanuele Orlando, che nel 1904 prolungò l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età. Persino la riforma Gentile del 1923 apportò innovazioni quali l’ulteriore elevazione dell’obbligo scolastico a 14 anni ma, come la riforma che si va a proporre, valorizzava la musica e il disegno, piuttosto che le materie scientifiche. Una scelta comprensibile allora in piena era fascista quando non si voleva che i giovani avessero un pensiero critico e analitico ma non oggi.

Ancora, venendo a tempi a noi più vicini, non possiamo ignorare la “famigerata” riforma Falcucci, che nel 1977 introdusse innovazioni radicali, quali il principio dell’integrazione degli alunni diversamente abili con l’assegnazione ad essi di insegnanti di sostegno, stabilendo nuove norme sulla valutazione e abolendo,  per la scuola media, gli esami di riparazione. Finanche i governi democristiani dei primi anni ’90, seppero apportare delle innovazioni quando, recependo il pensiero di tanti pedagogisti e di tanti insegnanti, nel 1985 riformarono i programmi delle elementari e nel 1991 gli orientamenti delle materne. E da ultimo, il ministro berlusconiano, Francesco D’Onofrio nel 1995, innovò eliminando gli esami di riparazione.

Ma è facendo i confronti con le proposte di un altro governo nominalmente progressista, quello Prodi del 1996, che si può comprendere a quale livello si sia precipitati. La Legge Quadro in materia di Riordino dei Cicli dell’Istruzione, messa a punto nel 1997 dal ministro Luigi Berlinguer, che pure fu, a ragione, tanto contestata per il ruolo affidato alle scuole private, insisteva sulla necessità di superare la distinzione, tipica del sistema formativo italiano, fra formazione culturale e formazione professionale, ed estendeva l’obbligo scolastico ai 16 anni.

La “riforma” Renzi, invece, ci riporta al 1928, quando il ministro Giuseppe Belluzzo istituì la scuola di Avviamento professionale, poi cancellata nel 1962 con la creazione della scuola media unificata. Come la legge Casati del 1859 pone su due diversi gradini licei e istituti tecnici: i primi preposti a formare le classi dirigenti, i secondi a formare una classe operaia specializzata, attraverso i percorsi scuola-lavoro. Non appare neppure lontana dalla “riforma fascistissima” di Gentile, che già dalle scuole medie prevedeva un sistema a “doppio canale”: uno che consentiva il proseguimento degli studi alle scuole superiori, l’altro che immetteva direttamente lo studente, al termine dei tre anni, nel mondo del lavoro, senza permettergli di andare oltre negli studi.

D’altronde, l’attuale proposta renziana segue quella parabola discendente iniziata con la distrazione di risorse dalla scuola pubblica verso quella privata, avviata dai governi Amato e Ciampi e proseguita da Berlusconi e Prodi. Una parabola che ha reso la scuola sempre meno una priorità nelle politiche governative, perché considerata una spesa anziché un investimento per il futuro. Una parabola che ha consentito incursioni ideologiche finalizzate alle politiche liberiste dei governi e un oscurantismo volto ad assecondare le gerarchie ecclesiastiche. Una parabola discendente che continua oggi con una proposta demagogica, scritta in lingua “renzish”, infarcita di slogan populisti, mascherata da intenti falsamente partecipativi con l’universo mondo, salvo che con chi di scuola si occupa da sempre.

Una riforma della scuola, per esser tale, deve proporre un modello pedagogico nuovo, al passo con i mutamenti socioculturali, deve essere capace di correggere le disuguaglianze crescenti che hanno bloccato il cosiddetto ascensore sociale, di riportare i più giovani al piacere della scoperta, della lettura, alla voglia di sapere, al pensiero critico. che va al di là della vulgata massmediatica. Questa purtroppo è l’ennesima “non proposta” di matrice autoritaria di un governicchio che vive di piccoli espedienti comunicativi ad effetto. Il nulla dietro le slides.

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