Obama, la disfatta dell’ex presidente

ROMA – Barack Obama non ha perso per ciò che ha fatto ma per ciò che non ha fatto. E non è vero che abbia perso da destra: ha perso da sinistra, per via della disaffezione dell’elettorato liberal nei confronti di un’Amministrazione che era partita, sei anni fa, con l’intenzione di cambiare per sempre il volto degli Stati Uniti e sta per andarsene lasciando un paese molto diverso da quello che aveva ereditato dalla presidenza Bush ma non mutato alle fondamenta e, soprattutto, non modificato nei suoi aspetti più ingiusti e inaccettabili.

Non gli è mancata la buona volontà, questo è evidente, ma un pizzico di decisione: ha fronteggiato la crisi con la dovuta prontezza e determinazione, riportando la disoccupazione a livelli per noi inimmaginabili, e si è mosso bene su argomenti spinosi ma importantissimi per il futuro del pianeta, quali l’ambiente, le emissioni di CO2 e, nel campo dei diritti, le unioni omosessuali, la riforma sanitaria e i tentativi di spuntare le unghie allo strapotere delle lobby finanziarie, artefici della bolla speculativa mondiale che nel 2007 ha cambiato per sempre il corso della storia, purtroppo in senso negativo.

La vera colpa di Obama, dunque, è di aver suscitato, anche in noi, troppe attese e troppe speranze, presto travolte dalla crisi e dall’opposizione feroce di un Partito repubblicano mai così estremista, mai così retrogrado, mai così adagiato sulle posizioni delle sue frange più conservatrici e impresentabili e proprio per questo, ed è la vera fortuna dei democratici in vista delle Presidenziali del 2016, incapace di parlare a quell’elettorato centrista che vorrebbe sì un’America più attiva e protagonista sulla scena mondiale ma che, al tempo stesso, non è disposta a sostenere le pagliacciate cialtronesche di candidati che sognano un ritorno al tempo dei pionieri del selvaggio West, ben cosciente del ruolo della nazione nel complesso scenario internazionale e delle responsabilità che esso comporta.

Per dirla in breve, l’elettorato “moderato” sa che oggi la politica isolazionista in stile Bush sarebbe non solo dannosa ma assolutamente inattuabile: lo era anche allora, a dire il vero, ma oggi, nell’epoca di Facebook e Twitter, pensare di restare a guardare mentre il mondo brucia o di decidere il da farsi in beata solitudine, ignorando i partner europei, le Nazioni Unite e le grandi organizzazioni finanziarie, porterebbe gli Stati Uniti ad essere messi all’angolo dall’avanzata imperiosa delle potenze emergenti.

Ed è qui che ha sbagliato e perso Obama: non ha avuto il coraggio di dire la verità ad un popolo che è anche disposto a perdonare i fallimenti dei suoi governanti ma non le loro bugie. Ha perso perché non ha avuto il coraggio di dire all’ala liberal dell’elettorato che la riforma sanitaria e della previdenza pubblica, nella direzione da essi auspicata e da lui promessa nel corso della campagna elettorale del 2008, non era più attuabile in quei termini, un po’ a causa della crisi, un po’ perché egli non controlla la Camera dei rappresentanti e, in queste condizioni, non ha più, e forse non ha mai avuto, la forza di opporsi radicalmente alle lobby che dominano le decisioni della politica americana. E ha perso perché non ha avuto il coraggio di dire all’ala centrista che la leadership mondiale degli Stati Uniti è stata messa seriamente in discussione negli anni Settanta, col disastro del Vietnam e la crisi petrolifera del ’73, ed è definitivamente terminata nel 1989, con l’abbattimento del Muro di Berlino e la fine del bipolarismo muscolare con l’Unione Sovietica. Quegli equilibri non esistono più e oggi nessun confronto, in nessuna parte del mondo, presuppone più logiche da Guerra Fredda, nemmeno il delicatissimo scenario ucraino, per il semplice motivo che gli attori globali con i quali bisogna fare i conti sono molteplici e reclamano pari dignità nelle decisioni.

Come fotografa Antonio Di Bella in un’interessante analisi sul sito di Articolo 21, gli unici veri successi conseguiti dall’Amministrazione Obama riguardano il campo economico “ma l’America profonda, a differenza dell’Europa, è pronta a barattare un po’ di benessere sociale in cambio di un’immagine vincente del paese nel mondo. E Obama, partito come il candidato dei sogni, si è trasformato in un freddo giocatore di poker, troppo moderato per scaldare i liberal, troppo pragmatico per entusiasmare i repubblicani”.

Il guaio, ed è bene che gli americani se ne accorgano in fretta, è che nessun presidente, democratico o repubblicano che sia, possiede la macchina del tempo; nessuno potrà restituire al Paese quella leadership indiscussa che lo caratterizzava nei decenni precedenti e, anzi, più passano gli anni, più le classi dirigenti d’oltreoceano saranno chiamate a confrontarsi con le pretese crescenti dei BRICS e di un’Africa destinata, al netto delle sue tragedie, delle sue contraddizioni e dei suoi regimi dittatoriali, a diventare il continente protagonista del Ventunesimo secolo.

Allo stesso modo, è bene che i repubblicani non si siedano sugli allori perché alla loro affermazione fa da contraltare l’approvazione di una serie di referendum di chiara marca liberal, come l’introduzione di un salario minimo e la legalizzazione della marijuana, che testimoniano chiaramente un cambio di mentalità anche all’interno dell’elettorato conservatore, meno chiuso e repressivo dei suoi rappresentanti ma, soprattutto, desideroso di lasciarsi alle spalle il trentennio del liberismo sfrenato in cui sono proliferate le fortune di un ex attore di Hollywood, di una famiglia di petrolieri in rapporti stretti con la CIA e di una sinistra terzaviista che ha sortito come unico effetto quello di condurre il mondo a destra, accantonando i propri valori storici e denotando una cultura subalterna e remissiva nei confronti degli avversari.

Per questo, per assurdo, a doversi preoccupare seriamente in vista delle Presidenziali del 2016 sono proprio i repubblicani, sprovvisti, al momento, di un candidato autorevole e sufficientemente razionale per contrastare una Hillary Clinton che potrebbe mettere d’accordo le due categorie rivelatesi la nemesi di un Obama ormai da tempo sul viale del tramonto.

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