ROMA – Quando Floriana Bulfon e io iniziammo a scrivere Grande Raccordo Criminale (Imprimatur editore 2014) la prima cosa della quale ci rendemmo conto è che ci saremmo trovati davanti a un muro di silenzi, in particolare da parte dei colleghi e della stampa non solo romana.
Perché era davvero incomprensibile che davanti a un scenario come quello che ci apprestavamo a descrivere non ci fosse stato – e non solo negli ultimi anni ma addirittura nell’ultimo decennio – qualcuno che si accorgesse di quello che stava (e sta) accadendo a Roma.
Oggi leggendo l’ordinanza dell’operazione Mondo di Mezzo (o Mafia Capitale come ormai è più conosciuta) ci troviamo ad avere, almeno per la parte relativa all’inchiesta della Procura e del Ros, una conferma di ogni nostra analisi e intuizione. A partire da un fatto che in troppi fanno in finta di trovare sorprendente. Sto parlando del ruolo non solo centrale ma di comando dell’ex terrorista dei Nar e appartenente alla Banda della Magliana Massimo Carminati. Sto parlando della Banda della Magliana che negli anni Novanti tutti davano per finita e invece si era immersa come il suo partner storico Cosa Nostra. Sto parlando del ruolo determinante della destra eversiva romana (e non solo romana) nella storia criminale (e per favore basta con le stronzate dello spontaneismo armato, i sordi so’ sordi e tutto il resto è fumo). Sto parlando della Mafie spa (che non abbiamo definito nel libro un’associazione temporanea d’impresa) dove tutte le organizzazioni mafiosi che agiscono da decenni agiscono di concerto usando come sponda pezzi enormi dell’economia romana e nazionale, pezzi degli apparati dello Stato e pezzi della politica (sia a destra e nel centro destra che nel campo del centro sinistra).
Gli appalti, le imprese, gli intrecci e i ricatti incrociati. Di tutto questo abbiamo scritto chiudendo il libro nel dicembre 2013 e andando in libreria a febbraio. La procura e gli addetti ai lavori come le forze dell’ordine ci hanno preso sul serio. L’analisi che abbiamo fatto non solo sui fatti criminali di oggi ma sull’evolversi storico del fenomeno criminale romano la ritroviamo nelle pagine dell’ordinanza. Non altrettanto ci hanno preso sul serio i colleghi della cronaca giudiziaria capitolina che analizzavano da decenni i fatti criminali romani come episodi separati e non connessi in uno scenario unico (se stnon alcuni irregimentati dalla pigrizia o dalle linee editoriali “rassicuranti”).
Lo so che queste affermazioni possono essere controproducenti in termini di rapporti con i colleghi e le redazioni, ma penso che la responsabilità dei media nel silenzio sui fatti che stavano accadendo a Roma siano troppo grandi per passarci sopra.
Riporto qui sotto, tanto per fare qualche esempio, alcuni brani del libro Grande Raccordo Criminale in relazione solo all’ambiente vicino all’ex sindaco Gianni Alemanno e a Massimo Carminati.
DAL CAPITOLO SU CARMINATI
«Non ama farsi vedere, tanto meno parlare. Si spiega più
con i gesti. Ogni passo è una frustata, ogni movimento
una scarica elettrica. Una forza gelida e oscura che ti in-
chioda a terra e non ti fa alzare lo sguardo». Chi lo cono-
sce da tempo lo descrive così. La forza quasi letteraria del
personaggio è immediatamente percepibile.
Una vita all’apparenza ordinaria: nessun lusso, nessu-
na ostentazione, nessuna retorica.
«Niente inflessioni dialettali, niente eccessi. Sempre
misurato e cortese». Si muove come un’ombra, racconta-
no. Massimo Carminati, un’ombra che fa tremare.
A lui la Roma criminale si rivolgerebbe per le primi-
zie, per avere un’intercessione negli affari che contano. La
sua potenza starebbe nella capacità di risolvere problemi.
Un broker in grado di mediare conflitti. Senza bisogno di
sporcarsi le mani, almeno non più. Un manager del crimi-
ne in grado di spostare milioni, amministratore delegato
senza bisogno di deleghe della Mafie s.p.a. capitolina?
Carminati, che vive solo della jeanseria gestita dalla mo-
glie vicino a corso Francia, è un’eterna contraddizione. È
considerato il capo più rispettato, nonostante non abbia
alcun conto in sospeso con la giustizia.
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Carminati, il “nero”. È stato un terrorista dei Nar e ac-
cusato di essere killer al servizio della banda della Ma-
gliana. Anello di congiunzione tra la criminalità romana
ed i gruppi eversivi di estrema destra. Al centro dei mi-
steri più controversi della Repubblica Italiana, processato
per rapine e omicidi, ne è uscito quasi sempre indenne.
A partire dall’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo
“Jaio” Iannucci, due militanti di sinistra uccisi a Milano
nel 1978 con otto colpi di pistola, che, secondo il penti-
to Angelo Izzo, non sarebbe riconducibile a una faida tra
rossi e neri, ma «considerata la personalità di Carminati
e i rapporti che deteneva con ambienti strani, l’omicidio
del Casoretto sarebbe da addebitarsi a manovre di spez-
zoni deviati dei servizi segreti controllati all’epoca dalla
P2». Dopo ventidue anni, nel 2000, il giudice Clementi-
230na Forleo ha decretato l’archiviazione del procedimento.
E poi il suo nome è entrato nelle inchieste sull’omicidio
Pecorelli, sul depistaggio del treno Taranto-Milano, nelle
trame dei servizi deviati.
Quando nel maggio 2012 ad Abbatino viene chiesto chi
sia il capo di Roma, lui pronuncia solo queste poche paro-
le: «Una nostra vecchia conoscenza uscita sempre inden-
ne dai processi”.
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E intanto Carminati continua a vivere nell’ombra. Pas-
sano gli anni e, nel 1999, finisce indagato in una clamoro-
sa impresa criminale minuziosamente ideata e organiz-
zata: il furto al caveau della Banca di Roma all’interno
al Palazzo di Giustizia capitolino. Un’organizzazione di
una ventina di persone, dai “cassettari” storici romani,
ai ricettatori, ad alcuni carabinieri complici ai basisti. Un
colpo storico che aveva più di un obiettivo: un bottino
miliardario di denaro e preziosi e forse un’arma di pres-
sione sui clienti dell’Istituto che avessero avuto nelle
cassette materiale compromettente. «Il motivo per cui è
stato fatto il furto è stato quello di prendere dei docu-
menti che potessero servire a ricattare i magistrati e so
che i documenti sono stati trovati. […] So che l’ interesse
era rivolto a documenti di magistrati romani, in modo
238da poterli ricattare per la gestione dei processi impor-
tanti che hanno su Roma», rivela un testimone in un in-
terrogatorio. E, secondo gli inquirenti, alcuni documenti
sarebbero serviti anche a lui, allora appena quaranten-
ne, interessato al contenuto delle cassette di sicurezza di
magistrati e avvocati. Si dice che da quel momento il suo
potere sia aumentato.
Potere che pare esplodere quando Gianni Aleman-
no varca la soglia del Campidoglio. Chi trent’anni fa ha
condiviso la militanza nell’estremismo di destra sembra
sappia di non potergli dire di no. Una famiglia con un le-
game più forte della parentela. Il vincolo della militanza
politica, degli ideali, delle battaglie condivise, e anche dei
segreti da custodire.
Uomini cresciuti nel mito di Peppe Dimitri, il leader
più noto e più amato dalla piazza “nera” romana. Al suo
funerale, il 1 aprile 2006, nella chiesa di Santa Maria del-
la Consolazione, ai piedi del Campidoglio, ci sono tutti.
Una folla di parlamentari, ex terroristi, giovani militanti,
sconosciuti su cui il “comandante” aveva esercitato un
fascino indiscusso. C’era anche l’allora ministro dell’A-
gricoltura Alemanno. Carminati no, «ma solo perché non
poteva», afferma uno dei partecipanti.
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Alemanno
E poi ci sono i legami che valgono più di quelli di san-
gue, quelli con i camerati, che, come ricorda il sindaco:
«Quelli di estrema destra non sono più maledetti di quelli
di estrema sinistra». Lui rifiuta «la logica per cui chi abbia
commesso in passato dei reati politici debba avere una
condanna a vita. Chi ha scontato la pena è stato riabilita-
to e ha tutto il diritto a trovare un impiego. Non accetto
condanne definitive per chi ha fatto militanza politica sia
a destra che a sinistra, questo vale per Sofri come per tutti
gli altri». Certo ad Adriano Sofri non è stato dato un po-
sto in Comune o in una municipalizzata, ma che impor-
ta. E se Alemanno da un lato difende il giusto diritto di
258riabilitare chi ha sbagliato per troppa passione politica in
passato, dall’altro non sa, non ricorda e scarica tutti, an-
che i collaboratori e gli amici più stretti. «Come quando
doveva menare ed era sempre un passo indietro», ricorda
chi negli anni Settanta in piazza scendeva davvero per di-
fendere anche in maniera violenta le idee in cui credeva.
E così Stefano Andrini, quello condannato per aver pre-
so a colpi di spranga due militanti di sinistra, diventa di-
rigente nell’azienda pubblica dei rifiuti; Maurizio Latta-
rulo, meglio conosciuto come “er Provolino” della banda
della Magliana, con una bella condanna per essere stato
l’uomo di De Pedis negli affari nelle case da gioco, si ritro-
va nell’ufficio del vice sindaco Sveva Belviso, colpita «per
il suo straordinario impegno sociale», per poi passare alla
Regione Lazio e con un lavoro di prestigio, ovviamente,
in un assessorato. E ancora Gianluca Ponzio in Terza Po-
sizione negli anni Settanta – con un trascorso in carcere
e processi per banda armata – assunto in Atac e in breve
dirigente delle Risorse umane e Francesco Bianco, ex Nar,
che forse per non farlo confondere lo mandano al Nucleo
Amministrativo Rimessa. Lui in una recente intervista
a Nottecriminale ha tenuto a precisare che da vent’anni
non compie reati, che ha pagato il suo conto con la giusti-
zia e che sì il posto gli è stato dato per chiamata diretta,
ma «qualcuno dimentica, che esiste una legge per l’inse-
rimento nei posti di lavoro per gli ex detenuti. Tutte le
amministrazioni di sinistra hanno dato e danno lavoro a
chiunque, quando tocca a me allora devo avere un trat-
tamento simile? Basta con questa ipocrisia. Le ammini-
strazioni vanno attaccate per come amministrano». Già,
peccato che non tutti gli ex detenuti trovino un posto di
lavoro con facilità. Quanto alle amministrazioni, Bianco
ha ragione, debbono essere giudicate per i risultati e quel-
li di Alemanno non lasciano fraintendimenti.
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E poi l’affare grosso. Il grande buco che attraversa la
pancia di Roma in cui tutti sono pronti a infilarsi.
L’opera pubblica più importante in costruzione in que-
sto momento in Italia è la nuova linea Metro C a Roma.
Inizio lavori 2006, consegna prevista – e puntualmente
prorogata – 2013. L’appalto viene vinto da Astaldi, Via-
nini di Caltagirone, Ansaldo e le coop rosse Cmb e Ccc.
Scrive la Corte dei Conti che «non esiste più una previsio-
ne di fine lavori». Costo iniziale dell’opera 1,9 miliardi di
euro, ma al 2013 si è arrivati a 3,5 miliardi, nonostante il
progetto abbia subito delle riduzioni non da poco, con la
cancellazione di gran parte delle stazioni nel centro stori-
co a causa del ritrovamento, ahinoi così poco prevedibile,
di reperti archeologici.
Il grande affare della Metro C, una linea invisibile che
unisce anche gli intrecci criminali e non risparmia l’uomo
dei trasporti del sindaco, Riccardo Mancini, che si sareb-
be messo immediatamente al tavolo con le imprese e che,
si sospetta, abbia spartito i subappalti. Pare abbia chie-
sto, confida un imprenditore anonimo a Paolo Mondani
267in un servizio mandato in onda dalla trasmissione Report
di Rai 3 «dal 5 al 7 per cento. Ma sono appalti milionari
eh». Tra i subappaltatori compaiono, fra l’altro, Marcan-
tonio s.p.a. che, in associazione con il Consorzio Stabile
Roma Due mila, prende 16 milioni di euro per le attività
di scavo. Il gruppo poi sub-affida forniture alle società
Fravesa, La Palma, Tripodi Trasporti: tutte poi escluse
per mafia, nonostante il precedente affido dei lavori. Il
Consorzio Stabile, partecipato dalla Semar Appalti della
famiglia Marronaro, nella quale figura Lorenzo, ex gioca-
tore della Lazio e del Bologna, che è stato socio in affari
nella Arc Trade di Marco Iannilli, lo stesso commercialista
finito dentro la vicenda delle tangenti Enav e in quella
sui filobus Breda Menarini. Iannilli, per molti vicino al re
“nero” Carminati.
Quanto alle società Fravesa e Tripodi trasporti sono ri-
conducibili alla potentissima famiglia di ‘ndrangheta di
Melito Porto Salvo da tempo ben radicata a Roma. Anima
imprenditoriale della ‘ndrina è Giovanni Tripodi che ac-
quista sempre più forza, afferma la Procura nazionale an-
timafia, grazie «all’appoggio derivante dall’appartenenza
a una cosca ben radicata sull’intero territorio nazionale,
quale è la cosca Iamonte; ma anche alla spasmodica ricer-
ca e frequentazione di amicizie influenti che Tripodi Gio-
vanni vanta tra esponenti del panorama politico naziona-
le». Un uomo, Giovanni, che nel 2010, accompagnato da
Alberto Pizzichemi, il delegato della Regione Calabria a
Roma, si incontra con Giuseppe Bono, uno degli assisten-
ti politici dell’ex ministro del governo Berlusconi Sandro
Bondi in via dell’Umiltà, dove ha sede il Pdl. Visita di
cortesia, ovviamente. E tra le aziende collegabili, secondo
gli inquirenti, alla mafia c’è anche La Palma, specializza-
ta nel movimento terra, il cui proprietario e procuratore
è Angelo Farruggio. Una corrispondenza riservata della
Dia segnala la famiglia Farruggio come «notoriamente
268vicina alla mafia tradizionale di Palma di Montechiaro,
contando su vincoli di parentela con esponenti di spicco
della criminalità organizzata locale». Ma ci sono anche al-
tre aziende come la parmense Fondazioni Speciali che si
è vista esclusa, nonostante abbia preso commesse dall’Ex-
po all’autostrada dei Laghi A8/A9. Guido Cillo, procu-
ratore e direttore tecnico dell’azienda, è stato rinviato a
giudizio il 6 luglio 2011 dal Gip del tribunale di Reggio
Calabria con l’accusa di essere coinvolto nelle indagini
“Patriarca” e “Infinito” condotte dalla Dia di Reggio Ca-
labria e di Milano.
Una rete pericolosa, come svela il giovane cronista Da-
niele Autieri su «la Repubblica» e una pagina buia di storia
italiana tra boss e uomini in doppiopetto. Come nel caso
di Fabrizio Montali, vero e proprio imperatore dell’istitu-
to di vigilanza Metronotte Nuova Città di Roma, che, nel
2012, forma una Ati (Associazione temporanea di imprese)
con altre società e si aggiudica l’appalto da cinque milioni
di euro per la gestione della sicurezza ai cantieri, ancora e
chissà per quanto, aperti. Peccato che la Procura lo accusi
per collusione con Enrico Nicoletti, il cassiere della banda
della Magliana, con imputazioni per riciclaggio, corruzio-
ne e intestazione fittizia di beni con l’aggravante di asso-
ciazione mafiosa. E l’unica cosa sicura resta l’appalto mi-
lionario della metro come quello altrettanto lucroso della
sicurezza in alcuni dei più importanti ospedali romani.
Gli appalti della metro C mostrano un intreccio impres-
sionante di aziende collegate o direttamente appartenen-
ti alla criminalità organizzata, alla ‘ndrangheta e a Cosa
nostra. E poi l’ingresso di un colosso: Finmeccanica. Il 16
maggio del 2012 Lorenzo Cola rivela nel corso di un in-
terrogatorio: «La vicenda dei filobus era un primo step
per intervenire, attraverso le controllate di Finmeccanica,
nella costruzione della metropolitana di Roma, un affare
che poteva valere 2 miliardi di euro».