La storia di Kissy, rifugiata politica in Italia e il suo percorso di integrazione

“Dalla fuga all’aiuto per gli altri. La mediazione come medicina”

ROMA –  Kissy ha 27 anni. È una bellissima donna, oggi. Pensare che era solo una bambina quando lascia il continente nero per raggiungere l’Italia. Dal 2008 nel nostro Paese, Kissy racconta in un percorso di ribellione ‘tutto itinerante’ su e giù per lo stivale italiano, il suo percorso d’integrazione.

«Avevo solo 19 anni quando mi fu detto: è meglio per la tua sicurezza, che lasci l’Africa»

Tra le recrudescenze della guerra civile, a cui lei assiste inerme, la giovane Kissy programma il suo viaggio  di non ritorno, sostenuta da una zia, che oggi (dopo tutto) resta il suo inconfutabile punto di riferimento.

Kissy abbandona At Tuba (villaggio al confine della Nuova Guinea) diretta a Milano. Lascia il figlio di soli 5 mesi ad un padre che gli promette, invano, un futuro migliore.

«Ero una bianca fra neri, figlia di genitore ebreo. Quando conobbi il padre di mio figlio, musulmano, non sapevo nemmeno del conflitto israeliano-palestinese».

Una volta giunta nella capitale lombarda con un aereo di linea, completamente smarrita, la giovane donna prova a chiedere aiuto. «Nessuno mi disse che potevo presentare una domanda di asilo. Nemmeno la polizia».

Dopo varie peripezie, raggiunge il Cara di Crotone, ((Centro di accoglienza per richiedenti asilo) È impaurita, le appare un enorme bunker delimitato da fili spinati che ricordano quelli di Guantanamo. «Perché sai.. c’è differenza tra un migrante e un rifugiato politico. Chi emigra conosce i propri obiettivi, sa cosa vuole. Il rifugiato no. È spaventato, non sa cosa gli aspetta» chiarisce.

«Arrivai in Calabria senza forze. Ero affamata, avevo sete» racconta. Avevo paura molto paura. Ero sola. Nessuno mi capiva

Si rivolge all’ufficio emigrazioni. Lo trova chiuso. « Mi fu detto: hai un luogo dove dormire? No, rispondo» All’ufficio Unchr, disse: «In Africa sono bianca, qui chi sono io

In pochissimi mesi, affiancata da psicologi e assistenti sociali, Kissy riesce ad ottenere l’asilo politico.

Va a Roma. Lì incontra un vecchio amico. Costretta a dormire come un clochard nei vecchi marciapiedi della Caritas siti in Via Marsala, racconta: «Mi lavavo la faccia, ovunque. Le gente mi evitava, mi allontanava, perché puzzavo». 

A Montopoli di Sabina (piccola frazione laziale sita vicino Rieti) Kissy, raggiunge l’ennesimo dei centri di accoglienza. «Eravamo uomini, donne,  famiglie ammassate tutte assieme».

Durante la permanenza nel centro d’accoglienza, riprende i contatti con l’ex marito emigrato in Norvegia. L’occasione si rivela fatale. «Vuole che lo sposi. Questo gli avrebbe consentito di ottenere documenti, che tuttavia non aveva ancora ottenuto. Chiaramente rifiuto».

Nel viaggio di ritorno in treno, la nostra piccola grande donna attraversa la Danimarca, i paesi scandinavi per giungere in Italia e fare i conti con l’ennesimo dei tentativi falliti.

Compie 20 anni, ma non smette di cercare la strada verso la dignità. Trova un lavoro. Dentro di lei è viva la speranza di poter rivedere suo figlio, magari portandolo con sé.

Va a Taranto. Lavora come cameriera, presso un ristorante italiano. «Sai- mi dice- “la bontà mi spaventa. Forse non ero abituata allora all’amore. Non so cosa significa essere amata».

Valeria Carlini, funzionaria del CIR (Consiglio italiano per i rifugiati, onlus) grazie al quale realizzo questa intensa intervista, interviene nel dibattito confidandomi che: “Ci vuole maggiore attenzione alla vulnerabilità, persone che si portano dietro storie così difficili hanno bisogno spesso di essere supportate con una presa in carico psicologica. La vita di Kissy è stata una fuga continua, dal suo racconto emerge come elemento continuo la mancanza di fiducia nell’altro, imputabile  più al suo passato che al contesto italiano. Un altro aspetto che emerge è come la diffidenza porta alcuni di questi utenti ad allontanarsi dai servizi. Spesso succede che chi si trova in contesti marginali, perda ogni contatto anche con le opportunità che esistono e che invece li possono aiutare: ad esempio sulle occupazioni noi ci muoviamo, cercando di portare i singoli individui dentro un sistema guidato (di assistenze).”

Ad ogni modo la nostra Kissy torna a Roma, si iscrive ad un corso formativo finanziato dall’Unione europea rifugiati. Con i pochi soldi accumulati, affitta un appartamento.  Lavora per un negozio di macchine online, ma si imbatte in  un inferno. L’uomo presso il quale lavorava, marocchino, la vuole in sposa. Al rifiuto, la donna subisce una serie di violenze, alle quali si ribella non facendovi più ritorno.

Torna a Montopoli. A Fara Sabina, presso la stazione della piccola frazione laziale, viene trattenuta da alcuni carabinieri. Kissy non ha subito violenza sessuale, bensì solo accuse ingiuste e un trattamento razzista accompagnati da malmenamenti. Ha avuto poi un processo che l’ha scagionata dalle accuse.

Oggi di quel passato Kissy, porta il peso di una grande esperienza. Lavora come mediatrice e comincia a collaborare per le diverse cooperative CIES, A Lampedusa e Mineo. «Lavorare» dice: «era la luce che Dio mi permetteva di vedere alla fine di un inferno».

Torneresti in Africa?

«Vorrei … ma in questo momento no, non posso».

Cosa pensi dell’accoglienza che ti ha dato l’Italia? Oggi: ti senti italiana?

«Mi sento italiana sì e ho fatto domanda di cittadinanza per diventarlo. In fondo è qui che sono cresciuta, nonostante le discriminazioni. Per me è come una seconda patria. L’unica volta che ho sentito gli italiani come stranieri è stato quando mi hanno violentata in quella stazione».

Che donna sei oggi?

«Oggi sono madre e moglie di famiglia. Mi ha raggiunta mia madre pochi anni fa e ho da poco avuto un altro figlio. Ha solo 9 mesi. Adesso sto facendo un master professionalizzante in mediazione infantile pediatrica».

Da utente a mediatrice?

«Sì, aiuto gli altri. Questo lavoro è la mia medicina per curarmi. Ho lavorato per diversi enti, in vari tribunali italiani e internazionali come mediatrice. Oggi offro il mio contributo all’Usl del Samif e al Cir ci lavoro su commissioni. Devo dire che ho conosciuto brave persone. La mia vita comincia nel 2011, quando mi sono lasciata andare al sistema italiano di accoglienza. È così che è iniziato il vero percorso di integrazione».

Cosa consiglieresti oggi alle donne in difficoltà?

«Di reagire, nonostante le difficoltà (ad integrarsi)».

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