La barbarie che viene da Istanbul

ROMA – La verità, anche se non lo ammetteremo mai, è che ciò che è avvenuto a Istanbul, come in tutto il resto della Turchia, eccezion fatta per le zone curde in cui l’HDP di Selahattin Demirtas ha raggiunto percentuali considerevoli, è unicamente colpa nostra.

Siamo stati noi europei, infatti, a legittimare per primi la rielezione, anzi l’instaurazione definitiva del salutanato, di Erdogan. Ha cominciato la cancelliera Merkel e nessuno, come al solito, ha avuto il coraggio di opporsi allo strapotere di quella che ormai può essere considerata, a ragione, la regina della non Europa: la non Europa che, in nome di una presunta stabilità, abbandona la Turchia nelle mani di un autocrate; la non Europa che non dice una parola sul sostegno implicito del suddetto satrapo ai tagliagole dell’ISIS; la non Europa che, rinnegando se stessa, non interviene di fronte alla barbarie delle sedi di giornali e televisioni turche “bonificate” dagli agenti al soldo di un uomo paranoico e incapace di accettare l’esistenza del libero dissenso; la non Europa che non batte ciglio di fronte alle stragi di Suruç e di Ankara; la non Europa che chiude gli occhi di fronte ai presunti brogli che hanno permesso al duce sul Bosforo di conquistare nove punti in più rispetto allo scorso giugno; la non Europa, proprio lei, capace addirittura di riaprire la trattativa su un eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea in cambio del mantenimento dei milioni di profughi provenienti dalla Siria in fiamme sul proprio territorio.

La non Europa, stupida e miope, evidentemente non ha capito che con un amico dell’ISIS al governo, per giunta intenzionato ad attribuirsi poteri presidenziali, non solo la crisi siriana si aggraverà ulteriormente, al pari dell’esodo di disperati in fuga dalle bombe di Assad e dalla brutalità dei seguaci di al-Baghdadi, ma l’instabilità dell’intera regione aumenterà a dismisura, fino a causare tensioni insostenibili che solo la saggezza diplomatica dimostrata negli ultimi mesi dai russi potrebbe evitare che sfocino in un conflitto di proporzioni mondiali.

Perché se il primo obiettivo del satrapo turco è quello di far fuori Assad, in palese contrapposizione con la linea adottata da Putin, e se il suo obiettivo nascosto ma ormai chiaro ai più è quello di liberarsi con la forza della minoranza curda, è palese che il suo scopo è quello di rafforzare lo Stato Islamico e di contribuire al progetto oscurantista di una diffusione a macchia d’olio della versione più retriva dell’islam: quella che nulla ha a che vedere con la convivenza civile fra popoli, etnie e religioni diverse, quella fondamentalista e assolutista, quella totalitaria che ben si coniuga con l’indole di questo dittatore dei tempi moderni, la cui deriva antidemocratica si è manifestata già due anni fa in occasione della ribellione dei ragazzi di Gezi Park, dando il là ad un’escalation di violenza, ferocia e intimidazioni che non hanno risparmiato nessuna voce ostile al coro di osanna preteso da un uomo sostanzialmente debole. Non crediate, difatti, che Erdogan sia saldo e sicuro di sé: vuole più potere perché sa che sta perdendo un’intera generazione, la quale non crede e non si fida più delle sue promesse; vuole un controllo assoluto di ogni aspetto della vita culturale e politica del Paese perché sa che il miracolo economico ha fatto il suo tempo e anche le masse rurali provenienti dall’Anatolia, il suo zoccolo duro, cominciano a porsi qualche interrogativo sulla sua capacità di rilanciare una Nazione che, a causa delle posizioni oltranziste del suo governo, rischia di finire ai margini della comunità internazionale; vuole più potere perché persino lo storico alleato americano, pur spalleggiando sempre e comunque la Turchia e pur spingendo per un suo ingresso in Europa, ha posto al centro della propria azione strategica e diplomatica l’eliminazione dello Stato Islamico; vuole più potere perché sa che non potrebbe mai reggere un conflitto con la Russia di Putin; vuole più potere perché, dopo quattordici anni di permanenza ai vertici dello Stato, la sua immagine si è irrimediabilmente appannata e le sue proposte politiche appaiono ormai logore; vuole più potere e lo ha ottenuto, seminando odio, rifiutando il dialogo con l’opposizione, ostacolando qualsiasi forma di confronto civile e stressando il popolo turco fino a conquistare una vittoria di Pirro che, alla lunga, non riuscirà a sfruttare, per il semplice motivo che ormai gli manca totalmente una visione, una base sociale e persino uno scopo, essendo venuta meno la prospettiva di una modernizzazione e di una crescita economica del Paese che fu la ragione del suo successo incontrastato per oltre un decennio.

Erdogan, in definitiva, serve più a un’Europa in crisi d’identità che alle speranze e alle aspettative del suo popolo: serve alla Merkel per prendere tempo in vista delle elezioni del 2017, a Hollande e Sarkozy per tentare di arginare la marea nera della signora Le Pen, a Cameron per vincere il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dell’Unione Europea e, forse, persino a Renzi, il quale potrebbe essere danneggiato non poco da un’ondata di profughi siriani in fuga da una Turchia che dovesse aprire le porte e lasciarli passare indiscriminatamente.

Ciò che non hanno capito questi signori, mancando di una visione di lungo periodo ed essendo, fondamentalmente, dei populisti privi di una base ideologica adeguata, è che una Siria nelle mani dell’ISIS rovescerà sul suolo turco una quantità tale di migranti che Erdogan non potrà fare altro che lasciarli venire da noi, mettendo in ginocchio delle leadership che, a parte forse quella della Cancelliera, si stanno rivelando, giorno dopo giorno, sempre più effimere ed illusorie.

La vittoria di Erdogan è, dunque, una sconfitta per la democrazia; un pessimo segnale per la comunità internazionale, in quanto purtroppo farà scuola e lancerà inquietanti messaggi di sostegno a tutti gli aspiranti satrapi sparsi in giro per il mondo; la conferma che il progetto europeo è fallito e deve essere ripensato da cima a fondo e, infine, l’ennesima dimostrazione di come sulla paura e sulle divisioni della propria comunità sia possibile edificare mirabili successi elettorali, destinati a trasformarsi poi in tragiche disfatte collettive.

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