Re Cecconi quarant’anni dopo

Luciano Re Cecconi, quarant’anni fa.

Tanto tempo è trascorso da quella gelida serata romana nella quale il campione della Lazio del primo scudetto, da poco ventottenne, venne assassinato da un gioielliere che non lo riconobbe e, temendo che fosse un rapinatore, gli sparò, stroncando la vita di un ragazzo dal cuore d’oro e dai polmoni grandi, dinamico e bizzarro, protagonista di uno dei miracoli sportivi più incredibili di sempre, ossia la vittoria e la permanenza ad alti livelli di una squadra assemblata mettendo insieme gli scarti altrui e, oltretutto, divisa in clan che si detestavano a vicenda. Se tutto questo fu possibile, se quella Lazio pistolera e profondamente di destra, composta per lo più da personaggi che sembravano usciti da un racconto di Pasolini, riuscì a battere una Juve atomica e un Toro che visse, in quegli anni, la sua ultima, vera stagione di gloria, il merito fu in particolare di Tommaso Maestrelli: un allenatore partigiano, dotato di quel carisma gentile, tipico dei miti, che solo poteva compiere la magia di far andare d’accordo personaggi dal carattere difficile e determinati ad affermare il proprio ruolo e il proprio prestigio personale nell’ambito di uno spogliatoio tra i più bollenti d’Italia. 

Anche Re Cecconi veniva dal basso e di quella Lazio era l’anima e lo spirito, l’icona e l’emblema, combattivo e inaffondabile com’era, indomito nel suo correre da una parte all’altra del campo, spostandosi su e giù come un moto perpetuo e contribuendo in maniera decisiva all’affermazione di una compagine sulla quale nessuno, all’inizio, avrebbe scommesso un centesimo. 

La tragica scomparsa di Maestrelli, sconfitto da un cancro a soli cinquantaquattro anni, era riuscita poi in un altro miracolo: ricompattare uno spogliatoio in cui molti di quei ragazzi, all’improvviso, si erano visti costretti a diventare uomini, ad accantonare la spensieratezza, lo svago e le follie della gioventù per trasformarsi in persone mature e responsabili, ben coscienti che quell’alchimia inspiegabile e ai limiti dell’impossibile, costruita da un uomo come probabilmente non ne nascono più, altrimenti, sarebbe andata perduta. 

Re Cecconi, considerato il saggio del gruppo, ne era forse il più consapevole, pur mantenendo quello spirito eccentrico e un po’ guascone che da sempre caratterizza i ventenni, e questo bivio tra l’incoscienza dell’età felice e la presa d’atto degli anni della responsabilità, questo non volersi arrendere del tutto alla scomparsa della propria indole e delle proprie pazzie giovanili gli costò carissimo, ponendo fine, in maniera assurda, ad un’esistenza esemplare, ad una passione pura, genuina, autentica, nobile al pari degli intenti di un esercito con molti generali e ben pochi gregari, capace tuttavia di intendersi lungo la via Pal della Serie A, correndo incontro alla vita con incosciente entusiasmo e spegnendosi per sempre a causa delle innumerevoli tragedie che si presero l’incarico di far tornare con i piedi per terra dei giovanotti venuti dal nulla e ascesi in pochi anni nell’empireo del calcio, osando sfidare e sconfiggere a testa alta le corazzate del Nord, onuste di gloria e imbottite di fuoriclasse.

Re Cecconi: un guerriero gentile, un angelo biondo e dannato, un sognatore indecifrabile o, più semplicemente, un ragazzo che immaginava il futuro e lo sfidava di continuo, con l’irriverenza tipica di chi sa di non poter fare alto per salire i gradini di una scala sociale in cui il concetto di giustizia era già allora pressoché sconosciuto. Mordeva la vita, Re Cecconi, finché la vita non ha morso lui, definitivamente, stroncandone gli ardori e fermandone il genio, in quella Roma di fine anni Settanta che tanto altro sangue, tanti altri lutti e tante altre morti inaccettabili avrebbe visto, in una stagione segnata dai furori rossi e neri, dall’irrequietezza di una gioventù divenuta individualista e dalla volontà di infrangere ogni residua pulsione ribelle da parte di uno Stato in bilico fra la saldezza dei princìpi democratici del dopoguerra e le spinte autoritarie e repressive di una fase turbolenta, nella quale ogni schema era saltato e le antiche convinzioni e consuetudini, proprie dei padri, stavano venendo progressivamente meno. 

Una stagione amara e straziante che pose le basi per la reazione successiva, per il riflusso e per i quattro decenni di letargo della politica dai quali solo oggi, forse, stiamo cominciando a svegliarci. Una stagione che solo chi non la conosce fino in fondo può rimpiangere, anche se quasi nulla di ciò che si è visto in seguito è stato meglio.

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