Frane e alluvioni. Una priorità nazionale per la sicurezza ed il lavoro

ROMA – Lo scorso anno la Toscana e le Cinque terre, poi Genova, in seguito Messina e poi ancora la Calabria, adesso Toscana, Lazio, Umbria. Un succedersi di eventi, ognuno con un drammatico bilancio di morti, dispersi, danni colossali. Negli ultimi dieci anni i morti sono stati ben 133 più i quattro di questi giorni.

Cosa deve ancora accadere per comprendere che la sicurezza idrogeologica è una priorità nazionale?
Convivere con un territorio straordinariamente bello, ma delicatissimo, ci ha spinto nel corso dei secoli a sviluppare tecniche, competenze, normative, istituti modernissimi ed efficacissimi per il governo del rapporto suolo/acqua/insediamenti umani. Venezia,  la laguna con il suo entroterra sono il risultato più straordinario di questa antica cultura. Ma non sono da meno le colline toscane, il sistema irriguo della pianura padana, le bonifiche della maremma e della pianura pontina ed ancora prima le grandi opere idrauliche in Italia e nel mediterraneo, della Roma repubblicana ed imperiale.
Questa antica sapienza, presa a riferimento nelle stesse Direttive europee su difesa del suolo e  alluvioni,   è ancora li, intatta e disponibile solo che la si voglia usare. Eppure questo non accade.
Ora però si è giunti ad un punto limite. Certo, anche nel passato ci sono state delle tragedie: 60 anni fa l’alluvione del Polesine, 45 l’alluvione di Firenze, ma quelle si che erano riconducibili ad eventi meteorologici straordinari. Oggi, se non si prende atto che gli eventi delle ultime settimane rientrano ormai nell’ordinarietà delle manifestazioni meteoriche, anche come conseguenza del cambiamento climatico in corso, saremo costretto  a subire ulteriori tragedie.

Ai tanti, a partire dall’ultimo Governo di centro destra, che continuano a pensare che la difesa del suolo ed i cambiamenti climatici siano un vezzo ambientalista, ricordiamo che il rischio frane e alluvioni interessa praticamente tutto il territorio nazionale: sono ben 5.581 i comuni a rischio idrogeologico, il 70% del totale dei comuni italiani, dì cui 1.700 a rischio frana, 1.285 a rischio di alluvione e 2.596 a rischio sia di frana sia di alluvione. Sette comuni su 10 sono zone rosse.

Le cause che stanno dietro a questi numeri sono più che note:
    –    le caratteristiche geologiche e geomorfologiche del nostro Paese, particolarmente esposto a fenomeni di dissesto idrogeologico, come frane e alluvioni;
    –    l’abbandono della montagna e dei terreni agricoli, con il conseguente venir meno del presidio del territorio e della manutenzione dei reticoli di drenaggio, la conseguente urbanizzazione diffusa e caotica, il restringimento degli alvei fluviali e la riduzione delle aree di espansione naturale delle piene;
    –    da ultimo, malgrado la pervicacia degli scettici nazionali, gli effetti dei mutamenti climatici. Nel corso degli ultimi decenni le precipitazioni hanno aumentato di molto la loro intensità concentrandosi in eventi sempre più violenti. Questo cambiamento nella manifestazione degli eventi meteorici, congiunto ai sempre più frequenti periodi di siccità, fa si che i versanti siano messi a dura prova di stabilità ed i fiumi siano soggetti a piene improvvise con gravi pericoli per la popolazione.
     Il risultato di tutto questo è il mutamento profondo della mappa del rischio per il sistema insediativo. Questo ha come conseguenza che quelle localizzazioni (città, paesi, singole abitazioni, infrastrutture, servizi) fino ad oggi considerate sicure oggi si trovano esposte a rischi inediti.
      Ma se sono chiare le cause, anche la cura è nota, solo che la si voglia praticare. A meno che non si voglia convivere in un perenne stato di emergenza: nel periodo 1996-2010 sono state emesse ben 245 ordinanze di protezione civile in materia di difesa del suolo.

        Si tratta allora di riporre al centro delle politiche pubbliche, a tutti i livelli, un’attenzione nuova al governo del territorio. Attenzione  da troppo tempo rimossa  dall’agenda politica italiana, con l’aggravante che negli ultimi anni i comuni sono stati costretti a far cassa con la monetizzazione del territorio per garantire un minimo di entrate alle esangui casse degli enti locali, aumentando ulteriormente le situazioni di rischio.
Governo del territorio deve significare innanzi tutto rimettere in sicurezza il sistema insediativo assumendo come prioritarie politiche di prevenzione del rischio. Per fare questo è necessario, in particolare da parte degli amministratori locali, rafforzare, stabilizzare ed estendere l’utilizzo della normativa vigente e degli strumenti disponibili. In particolare è necessario passare da una impostazione incentrata sulla riparazione dei danni e sull’erogazione di provvidenze (gli appalti), ad una cultura di previsione e prevenzione (il servizio), diffusa a vari livelli, imperniata sull’individuazione delle condizioni di rischio e volta all’adozione di interventi finalizzati ad una sensibile riduzione dell’impatto degli eventi.

La CGIL in più occasioni a proposto di considerare la tutela dal rischio idrogeologico come una sorta di “servizio pubblico” in quanto le cose da fare richiedono un impegno straordinario e continuo: si tratta di organizzare una rete estesa e diffusa di presidi territoriali che svolgano azioni di monitoraggio e manutenzione del territorio attraverso precisi programmi, coordinati a livello di bacino. Programmi che richiedono: un supporto tecnico qualificato e diffuso sul territorio, una figura di “tecnico condotto” in grado di guidare gli interventi da fare e indicare quelli da evitare; la possibilità di attivare l’intervento di addetti del settore agricolo e forestale, meglio se radicati sul territorio, insieme alla possibilità di impiegare nuova occupazione;  un flusso di risorse finanziarie sufficiente e, soprattutto, costante e certo, in grado di alimentare un’ordinaria e durevole attività.
Questa idea deve essere ripresa e sviluppata, ad esempio sperimentando formule tipo servizio civile. Il Governo dei tecnici dovrebbe prendere queste proposte in seria considerazione anche perché ha delle potenzialità occupazionali numericamente straordinarie, distribuite nel territorio, rivolte in particolare ai giovani,  con i più diversi livelli professionali (dal manovale, all’esperto di scienze della terra), con ricadute importantissime: dall’economia montana al turismo.  

Per realizzare una azione all’altezza del rischio si pone sicuramente un problema di risorse. L’ultima indagine conoscitiva sulla difesa del suolo della commissione Ambiente  della Camera del 23 Settembre 2008 attesta che per mettere in sicurezza il nostro territorio sul fronte del rischio idrogeologico occorrerebbero 44 miliardi di euro, di cui 27 per il Centro-Nord, 13 per il Mezzogiorno e 4 per il sistema costiero.
Dove prendere queste risorse?  La risposta è sotto i nostri occhi, solo che la si voglia vedere. Visto che già ogni anni sosteniamo, costantemente, spese superiori al miliardo per interventi di ripristino dei danni, ed allora perché non destinare preventivamente queste risorse per alimentare un fondo per la sicurezza idrogeologica  integrandole con quota parte di quelle destinate alla storia infinita delle grandi opere?
Stando alle stime della Camera, con due miliardi l’anno in 22 anni saremmo in grado di mettere in sicurezza il territorio nazionale e, nel contempo, alimentare un  importante volano occupazionale.

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