Papilloma virus e popolazione italiana: un tentativo di prevenzione “più consapevole” nella sanità pubblica

ROMA – Il papilloma virus  (Human Papillomavirus, HPV) è un virus associato all’ infezione genitale della donna e, in maniera determinante, al tumore della cervice.

Esso è presente praticamente in tutti i tumori invasivi (in particolare a livello dell’epitelio anogenitale, orofaringeo e cutaneo). Esistono diversi forme di questo virus che possono compromettere le mucose o la pelle – causando, ad esempio, verruche della pelle, condilomi genitali, etc. – e, tra di esse, si differenziano per il loro contenuto di DNA. 
In base a studi recenti, resi pubblici in un Convegno sull’infezione da HPV tenutosi a Roma, si evince che in effetti l’infezione da “Papillomavirus Umani” genera in prevalenza –  tra i diversi tumori – il cancro della cervice che, a sua volta, costituisce la seconda causa di morte per cancro nel mondo. Tale virus si trasmette per via sessuale e, purtroppo, è asintomatico. Gli unici sintomi percettibili dei pazienti sono spesso dovuti ad altre infezioni che si cumulano a quella principale. 
Per quanto riguarda il contagio, invece, possono essere infettate persone di ambo i sessi e di qualsiasi età: il problema è che spesso non si sa di esserne affetti e pertanto portatori.

Lo screening per il cancro alla cervice è realizzato utilizzando il pap-test per le lesioni genitali e l’esame pelvico. Com’è noto, questa è una tecnica molto conosciuta e usata nei paesi industrializzati: cosa che, diversamente, non si può affermare per quelli ancora in via di sviluppo dove i nuovi casi di cancro alla cervice – così come i decessi ad esso associati, hanno una frequenza molto elevata.   

Attualmente studi di settore hanno improntato strategie vaccinali anti-virali per la individuazione del virus e per la prevenzione e cura di questa specie di tumore, anche se gli esperti raccomandano di non usare tale vaccino in sostituzione dei comuni controlli periodici che si eseguono attraverso il pap test (vale a dire lo screening che viene consigliato alle donne di età compresa tra i 25 e i 64 anni). 
La campagna inerente al vaccino contro il cancro alla cervice, iniziata già nel marzo del 2008 e rivolta a ragazze tra gli undici e i dodici anni di età di tutto il Paese, non ha avuto i risultati sperati nonostante le aspettative, per non parlare dell’ impegno finanziario (nella Finanziaria 2008 sono stati stanziati 30 milioni di euro come contributo aggiuntivo alle risorse già previste per l’assistenza farmaceutica. Altri 40 milioni di euro sono stati reperiti dai capitoli di bilancio del Ministero della Salute) e della tempestività del nostro Paese rispetto ad altri. Infatti secondo fonti accreditate: “L’Italia è il primo Paese europeo ad  aver pianificato una strategia di vaccinazione pubblica contro il Papilloma virus (HPV), l’agente virale che può essere causa di infezioni genitali femminili e, a lunga distanza, anche del tumore della cervice uterina, malattia che causa ogni anno circa mille morti”. Ciononostante chi ha usufruito dell’intero ciclo della copertura vaccinale contro l’HPV, a dispetto della promozione al riguardo, ha coperto solo il 59% delle ragazze nate nel 1997.

Senza dubbio per la sanità pubblica questa “assennata” promozione di un nuovo vaccino, appunto, ha rappresentato e rappresenta tutt’ora una sorta di banco di prova, a prescindere dalla risposta immediata non del tutto soddisfacente. Uno tra i motivi di tale risultato probabilmente può derivare dalle differenze regionali – inerenti anche alla mentalità locale – che differenziano il recepimento delle divulgazioni sanitarie come anche della comunicazione stessa. Durante un convegno tenutosi a Roma con il contributo dell’associazione Onlus “donneinrete” e titolato: “La vaccinazione tra diritto e dovere. Quale comunicazione per facilitare la scelta?” si è andati oltre questa riflessione, mettendo a confronto il passato e presente. Ne è derivato questo corollario: guardando al passato, gli operatori di settore si sono avvalsi della presenza di leggi che imponevano loro l’obbligatorietà della vaccinazione, senza adoperarsi in alcun modo alla comunicazione di settore e all’informazione sanitaria nei confronti dei pazienti. Invece oggi, grazie alla educazione sanitaria, accade altro. Infatti persiste la credenza tra gli operatori sanitari di “nuova generazione” che il loro ruolo sia indispensabile per garantire coperture vaccinali accettabili. Oltre a ciò il fatto di  “introdurre forme nuove di vaccinazioni” obbligatorie sembrerebbe andare un po’ contro corrente rispetto al concetto della libertà di scelta da parte del paziente. In realtà tale “imposizione” si deve inserire in un contesto storico che parte dagli anni ‘60 in cui vi erano territori e culture ampliamente diversificate. Ma all’epoca tale obbligo ha permesso, e tutt’ora permette, un servizio all’utenza che si estende su tutto il territorio nazionale, senza alcuna differenza. E per giunta gratuito.

Di qui la necessità di un lavoro di equipe tra scienza, informazione sanitaria, operatori sanitari, e comunicazione pubblica – corredate tutte dalla trasparenza del proprio operato – affinché ci sia una scelta quanto più responsabile e consapevole da parte del cittadino fruitore del servizio: sia guardando ai rischi che ai benefici, per esempio, relativi ad un nuovo tipo di vaccinazione piuttosto che all’introduzione di un nuovo farmaco.

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