Giornalista si suicida. Era un precario. La lettera di Maurizio Bekar

Riceviamo e pubblichiamo questa lettera che ricalca la situazione drammatica che l’Italia sta attraversando e che colpisce tutti i settori. Giornalismo incluso. Rileggendo questa triste vicenda suona come un sonoro schiaffo alla povertà la dichiarazione rilasciata da un altro giornalista, Emilio Fede: “Io guadagno 20 mila euro al mese – ha detto il noto volto televisivo di Rete 4 – .

Ogni direttore dovrebbe dire cosa guadagna ma nessuno ne ha il coraggio”. Intanto si continua a morire, specie quando la dignità delle persone viene volutamente cancellata.

La lettera di  Maurizio Bekar – Coordinatore della Commissione nazionale lavoro autonomo della FNSI
Giornalismo. Pierpaolo e gli altri. Cronache di morti annunciate

“Chi e quando sarà il prossimo?”. Martedì 21 giugno un giornalista precario 41enne della provincia di Brindisi si è tolto la vita, impiccandosi a un albero nel giardino di casa. Pierpaolo Faggiano, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, avrebbe lasciato una lettera in cui motivava il suo gesto con una delusione sentimentale e la precarietà lavorativa.
Difficile, senza averlo conosciuto di persona, valutare appieno la complessità delle ragioni che l’hanno spinto a togliersi la vita. Ma non può non colpire che se sindacato e Ordine dei giornalisti pugliesi hanno commentato il fatto con toni sofferti e misurati, sottolineando la sua condizione di  precarietà lavorativa, su internet e Facebook il tam tam dei giornalisti freelance e precari di tutta Italia è stato netto e senza sfumature: la precarietà lavorativa, e quindi esistenziale, lo hanno spinto a farla finita.

Per chi vive la condizione di precario dell’informazione non c’è infatti bisogno di molte analisi: articoli per testate locali pagati 4-8-12 euro lordi, e per quotidiani nazionali fino a 30-40 euro (certo ci sono anche retribuzioni superiori, ma pure di gran lunga inferiori, e pezzi o foto non pagati). Mentre i contratti co.co.co con una paga fissa mensile, e comunque di gran lunga inferiore a quella di un dipendente (diciamo 1000-1200 euro lordi al mese?) sono delle rarità. E questa precarietà non è più limitata nel tempo, ma può durare dieci o più anni, o anche un’intera vita. Mentre l’assunzione da dipendente, o la possibilità di fissare il prezzo per un proprio servizio, come fa un libero professionista, sono dei miraggi per la quasi totalità dei freelance.
Quando in Italia oramai la maggior parte dei giornalisti sono senza contratto da dipendente (24.000 i non contrattualizzati contro 20.000 dipendenti), pur fornendo molte delle notizie che verranno poi pubblicate dai mass media, e guadagnano in media meno di 10.000 euro lordi l’anno, e il 55% di loro nemmeno 5.000, senza coperture per malattia e ferie, sostanzialmente senza welfare, con spese di produzione a carico assieme ad una sostanziosa fetta dei contributi, c’è poi da meravigliarsi se più di qualcuno di loro viva sempre sull’orlo della disperazione? E come poter campare senza l’aiuto dei genitori, formarsi una famiglia, pagare un mutuo? E che succede se si perde il lavoro, ma le bollette continuano a bussare alla porta?

Chi è freelance-precario e svolge attività sindacale, come me, sa quanti casi di povertà, di rabbia, di disperazione e di mancanza di mezzi che incidono sulla dignità personale, prima ancora che su quella professionale, ci si trova davanti. E c’è allora da meravigliarsi se qualcuno, un giorno, decide di togliersi la vita? Un collega commentava “Da tempo mi chiedevo non ‘se’, ma ‘quando’ sarebbe accaduto…”.

E’ immediatamente giunto il cordoglio della categoria nazionale dei giornalisti, assieme all’impegno a una decisa battaglia su queste tematiche. Ma per molti freelance e precari (basta conoscerne alcuni, o vagare un po’ su Facebook) sono parole che vengono registrate a dir poco con scetticismo. “Ora si accorgono di noi… ma negli ultimi 10-15 anni dov’erano? Si occupavano solo di contrattualizzati e pensionati, ben pagati e garantiti…”. La stragrande maggioranza dei freelance, cioè proprio quelli che non godono di tutele contrattuali collettive, infatti non sono nemmeno iscritti al sindacato dei giornalisti, perché lo ritengono scarsamente attento ed impegnato sulle problematiche dei non contrattualizzati.

In realtà, da sindacalista “di base” quale sono, vedo ogni giorno che, pur fra difficoltà e contraddizioni, un sindacato storicamente rivolto a professionisti ben retribuiti e tutelati da un contratto collettivo sta volgendo l’attenzione verso la precarietà. Ma su questo fronte sconta, per stessa ammissione dei suoi vertici, pesanti ritardi culturali ed operativi. E ora che la maggioranza dei giornalisti sono precari (e quindi anche fortemente ricattabili quanto ad autonomia e qualità professionale) la macchina sindacale sta faticosamente ingranando appena la seconda marcia sul  tema, quando da almeno un decennio doveva già correre con la quinta e l’acceleratore premuto a tavoletta…

La categoria dei giornalisti è però in buona compagnia: anche altre organizzazioni sindacali, forze politiche e soprattutto le istituzioni scontano gravissimi ritardi nell’affrontare questi temi. E nel frattempo la disoccupazione e la precarietà sono divenute non solo delle emergenze nazionali, ma anche dei drammi di cronaca nera. Se infatti l’altro giorno un giornalista 41enne ha deciso di togliersi la vita per la propria condizione di precarietà, gesti analoghi, o di violenza su di sé o sugli altri, sono già avvenuti anche in altre categorie di lavoratori.

Pierpaolo Faggiano ha subito ottenuto il cordoglio e la solidarietà della categoria dei giornalisti, che invece lavoratori di altri settori, socialmente più invisibili di lui, non avranno mai. Ma è anche vero che quegli stessi giornali che ogni giorno parlano di precariato, sottoccupazione e di crisi fra i giovani, sono pieni di collaboratori esterni sottopagati, che spesso scrivono con dignità e compassione (nel senso di condivisione) di precariato negli altri settori del mondo del lavoro, di extracomunitari sfruttati, di lavoratori in nero, di drammi della povertà e della solitudine… Ma quando le organizzazioni di precari e freelance, e anche lo stesso sindacato di categoria, emettono dei comunicati sul tema dei non contrattualizzati, ben raramente questi vengono pubblicati.

Oggi non credo sia giusto fare di Pierpaolo un martire-simbolo dei freelance, sia perché non si sa se lui l’avrebbe voluto e gradito, ma soprattutto perché non credo che sarebbe il solo, né l’ultimo, ad esserlo. Temo infatti che qualche altro suicidio o gesto estremo, come è già accaduto negli ultimi anni, si ripeterà anche in altri settori del mondo del lavoro, oggi devastato dalla precarietà.
Quando si giunge ad atti così estremi, non credo sia più lecito parlare di “insano gesto”. Perché gesti simili esprimono la disperazione di chi è giunto alla convinzione che non ha più senso vivere e combattere, fronteggiando impotente forze avverse più grandi di te. E ne parlo con dolorosa coscienza, avendo visto due persone a me care fare questa stessa scelta estrema negli anni della loro gioventù e maturità, quando il fardello delle loro vite era divenuto troppo pesante da sopportare.
Per spezzare queste dinamiche distruttive, a tutti i livelli sociali e politici servono oggi interventi urgenti, interrogandosi se le soluzioni finora prospettate siano adeguate. Ed essendo consci che la precarietà senza sbocchi diventa man mano angoscia, e infine un’invincibile disperazione.

Credo allora che la domanda da porsi oggi sia: “Chi sarà il prossimo Pierpaolo Faggiano, e in quale altra categoria di lavoratori?” E soprattutto “E’ un problema che sento anche mio, oppure no?”. Perché se non proviamo un forte senso etico di indignazione per il dramma del precariato, con la conseguente urgenza e determinazione di combatterlo a fondo, non credo ci saranno sbocchi.
E allora i prossimi gesti estremi non saranno altro che delle cronache di morti, o di violenze, da tempo annunciate. E che avevamo scelto di ignorare, guardando altrove ed occupandoci d’altro.

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