Palestina. Aumenta la repressione e la povertà

Israele continua ad impedire il processo di edificazione statale aumentando persecuzioni, raid ed ostacoli alla sopravvivenza

GAZA CITY – Non si placa l’escalation di terrore e violenza in Palestina. Boati come di esplosioni continuano lungo la Striscia di Gaza. Sono i cosiddetti “sonic boom”, provocati dai caccia f16 israeliani quando rompono il muro del suono a bassa quota. Stamane nuovo attacco delle forze d’occupazione israeliane da terra e dal mare.
In questi giorni si era sentito parlare di tregua, ma i bombardamenti, soprattutto sui campi profughi, non cessano. Nonostante un cessate il fuoco accordato con la resistenza palestinese sabato scorso, per tre giorni Israele ha scatenato vaste offensive nelle quali sono morte 17 persone, e oltre 70 sono rimaste ferite. Inoltre la notte del 12 Aprile quattro lavoratori sono morti per via del crollo di uno dei tunnel scavati dai palestinesi sotto il confine di Rafah. Tramite i tunnel passano tutti i beni necessari (alimenti, cemento, bestiame) alla sopravvivenza della popolazione di Gaza, asfissiata da quattro anni dall’assedio israeliano. Anche gli ospedali della Striscia si approvvigionano dal mercato nero dei tunnel. Dall’inizio dell’assedio a oggi più di 300 palestinesi sono morti sotto terra per permettere ad una popolazione di quasi 2 milioni di persone di sfamarsi. Una condizione ai limiti dell’umana sopportazione: un palestinese su quattro nei territori palestinesi occupati vive sotto la soglia di povertà. In Cisgiordania il 18,3% dei palestinesi vive sotto la soglia di povertà, percentuale che arriva al 38% nella Striscia di Gaza. Questi sono i dati del PCBS, Ufficio centrale palestinese per le statistiche.

E mentre i palestinesi muoiono di fame, il premier israeliano Nethaniau, dopo la richiesta delle Nazioni Unite all’Autorità palestinese di arrivare ad una definizione dello Stato entro settembre, sta cercando di impedire con tutti i mezzi il riconoscimento di  uno stato palestinese entro le linee di demarcazione che erano in vigore fino al 1967. Si tratta dell’ennesima intimidazione “diplomatica” da parte di Israele, che negli ultimi mesi sta pressando le Nazioni Unite per impedire oltre alla proclamazione unilaterale di indipendenza palestinese, anche la partenza della Flotilla 2, il convoglio umanitario diretto a Gaza  per sostenere la popolazione stremata dall’assedio (ieri anche Berlusconi ha detto che si opporrà alla partenza della Flottilla 2, in difesa dell’”unica democrazia del basso mediterraneo”). Il premier Israeliano dimostra di eludere la questione quando parla di “isole”, circondate, da concedere all’ANP, ma non c’è il minimo cenno alla questione degli insediamenti e dei 500 mila coloni che occupano i territori palestinesi con l’endorsement del governo israeliano. Intanto la repressione e persecuzione ad Awarta, in merito ai fatti di Itmar (dove una famiglia israeliana un mese fa è stata assassinata), non cenna ad arrestarsi. 55 residenti della comunità a sud di Nablus, rimangono in carcere nonostante non ci sia alcuna prova che colleghi l’assassinio dei coloni di Itamar ad Awarta. Si tratta di una campagna di punizione collettiva nei confronti del villaggio: la scorsa settimana sono state arrestate anche 200 donne del villaggio per essere sottoposte a interrogatori e a test del DNA.

Intanto il 10 Aprile la Lega araba, al termine di una riunione dedicata alla crisi nella Striscia di Gaza, si era dichiarata disposta a richiedere alle Nazioni Unite l’imposizione di una no fly zone su Gaza per gli aerei israeliani. La richiesta di una no-fly zone anche in Palestina per proteggere la popolazione civile è nata qualche settimana fa con le proteste  e manifestazioni della società civile, in primis delle organizzazioni israeliane contrarie all’occupazione e alla politica razzista di Stato, così come dai palestinesi e dalla società civile internazionale.
E mentre l’escalation di violenza continua, al Jazeera ha diffuso una notizia secondo cui Gheddafi sta combattendo con armi “made in Israel”. Mediatore della consegna tra Tel Aviv e il dittatore libico sarebbe Mohamed Dahlan, esponente di Fatah e noto per le sue posizioni accomodanti verso la politica coloniale israeliana. Il comitato centrale di Fatah ha annunciato l’inizio di un’indagine, che probabilmente finirà, come spesso è accaduto, nel cesto delle “occasioni perse”.

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