Le auto-immolazioni contro Pechino arrivano fino a Lhasa

PECHINO (corrispondente) – La lunga lista di auto-immolazioni tibetane si arricchisce di due nomi: Tobgye Tseten originario della provincia cinese del Gansu e Dargye, residente nella contea di Aba, regione del Sichuan, domenica scorsa si sono dati fuoco davanti al tempio Jokhang, nota meta di pellegrinaggio della città di Lhasa.

Tobgye Dargye, l’unico dei due ad essere sopravvissuto, si trova in ospedale e le sue condizioni sarebbero stabili, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa cinese Xinhua.

La polizia locale è intervenuta tempestivamente spegnendo le fiamme in pochi minuti.
“Hanno usato un tubo dei pompieri per spegnere il fuoco” ha raccontato a Radio Free Asia un testimone oculare, il quale ha specificato che è stato vietato a chiunque l’accesso all’area. “Chi ha tentato di raggiungere il luogo è stato arrestato e portato via, mentre le autorità hanno proceduto alla confisca dei cellulari di tutti coloro si trovavano nei pressi” ha raccontato l’uomo.
Tseten e Dargye, due monaci di età compresa tra i 19 e i 22 anni -come affermato da una fonte anonima- si sarebbero trovati in piazza Barkhor insieme ad altri confratelli per protestare contro il dominio esercitato dal governo cinese sulla regione autonoma del Tibet.
Persone del posto hanno fatto sapere che al momento la città è sotto la stretta sorveglianza della polizia e di forze paramilitari, di vedetta nelle zone turistiche e nei dintorni del palazzo del Potala.

La politica draconiana imposta da Pechino sulla regione ha ispirato molti altri gesti estremi: 37 il totale accertato delle auto-combustioni dal sanguinoso marzo 2009, 17 i decessi. Quello di domenica è stato il secondo episodio del genere nella “terra dei lama”, il primo nella città di Lhasa, mentre la maggior parte delle proteste è avvenuta tra Gansu, Qinghai e Sichuan, provincie cinesi ad alta concentrazione di tibetani. Lo scorso mese un incidente simile è avvenuto a Nuova Delhi dove un uomo si è dato alle fiamme per manifestare contro la visita del presidente Hu Jintao, giunto nella capitale indiana per prendere parte ad un summit dei BRICS.

Le rimostranze di Tseten e Dargye si sono verificate in concomitanza con la celebrazione del Saka Dawa, mese in cui si tengono i festeggiamenti per la nascita, l’illuminazione e la morte del Buddha. Un periodo di buon auspicio per i tibetani, ma particolarmente a rischio tanto da aver indotto le autorità cinesi ad emettere severe direttive per vietare agli impiegati statali e agli studenti di prendere parte alle attività religiose per l’intero mese.

L’ultimo anno ha visto una netta intensificazione delle manifestazioni anti-cinese, fomentate da episodi di discriminazione e violazioni dei diritti da parte dei funzionari di Pechino ai danni dell’etnia tibetana, da anni in protesta per il riconoscimento di maggiori libertà e per il ritorno del Dalai Lama, in esilio a Dharamsala dal ’59.
Sua Santità ha accusato il governo cinese di aver affrontato il problema delle auto-immolazioni attraverso politiche “totalitarie” e “irrealistiche”, mentre, da parte sua, Pechino ha bollato i martiri tibetani come terroristi, criminali, emarginati e malati di mente, aizzati a commettere folli gesti dalla loro guida spirituale.

Nel tentativo di tenere sotto controllo i “ribelli”, le autorità cinesi hanno messo in atto uno stretto giro di vite che ha condotto alla detenzione di centinaia di monaci; scrittori, artisti e molti tra coloro si sono battuti per l’affermazione dell’identità nazionale tibetana sono finiti dietro le sbarre.

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