Taiwan. I pronostici ad una settimana dalle presidenziali

PECHINO (corrispnedente) – Aria tesa sull’isola di Taiwan. Ad una settimana esatta dalle elezioni presidenziali i due piatti della bilancia sembrano essere ancora in equilibrio: secondo i sondaggi, a contendersi la poltrona sono Tsai Ing-wen, rappresentante del Partito democratico progressista e Ma Ying-jeou, leader del Partito nazionalista alla ricerca del secondo mandato, mentre il terzo candidato, il fondatore del Primo Partito del Popolo James Soong, riuscirà forse faticosamente ad accaparrarsi un decimo dei votanti.

Negli scorsi giorni i due rivali si sono sfidati a colpi di accuse: la signora Tsai e i suoi uomini hanno incolpato l’attuale presidente di aver sguinzagliato i servizi dell’intelligence per spiare illegalmente la loro campagna elettorale, mentre Ma, per non essere da meno, ha sollevato una serie di interrogativi sulla posizione ricoperta dalla leader del Partito democratico all’interno di una società biotech statale, che le avrebbe fruttato ingenti guadagni. Immediate le smentite da ambo le parti.

Così “lontani” eppure così “vicini”; una serie di somiglianze accomunano in maniera evidente i due leader politici. Entrambi hanno effettuato gli studi oltremare, muovendo i primi passi nel mondo accademico: Ma ad Harvard e alla New York University, Tsai alla Cornell University e alla London School of Economics. Tutti e due refrattari alle telecamere manifestano, piuttosto, una certa tendenza wonkish; promettono ai cittadini una generosa spesa sociale e abitazioni a basso costo.

Tsai punta sull’eterogenea schiera dei suoi fedeli sostenitori, che oltre ai nativi dell’isola e ai contadini del sud vanta la partecipazione dei colletti blu, i quali sognano ancora un ritorno agli splendori degli anni ’90, quando Taiwan era ancora il paradiso della produzione dell’high-tech. “Se chiedete ai miei vicini, loro vi diranno di essere verdi, ma in realtà dentro di loro sono blu” ha dichiarato la Miss dei Democratici, facendo riferimento ai colori delle bandiere sventolate dai due Partiti rivali.

E tra i due fronti si erge la questione cinese. Taiwan vive in un’indipendenza de facto da quando nel 1949 Chiang Kai-shek fuggì sull’isola spostando il governo della Repubblica di Cina a Taipei; poi negli anni 70′ l’inizio del declino, con la conseguente perdita del seggio all’Onu in favore di Pechino.

Dopo 8 anni di presidenza democratica -guidata da Chen Shui-bien, tutt’oggi dietro le sbarre con un’accusa di corruzione-  nel 2008 le redini del Paese sono passato nelle mani di Ma, già conosciuto nel panorama politico come ex sindaco di Taipei, il quale ha da subito mostrato una linea morbida nei confronti della mainland suggellata da un accordo di libero scambio, l’Economic Cooperation Framework Agreement (ECFA).

“Diciamolo chiaramente, la Cina non vuole altro che divorarci, e il GMD (ovvero il Partito nazionalista) ci sta abbandonando nelle sue grinfie” ha commentato lo scorso mese Zhou Zhu-Zhen, un infermiere in pensione che ha dato eco ai timori del popolo taiwanese, indignato verso l’eccessiva accoglienza dimostrata dal governo attuale nei confronti del colosso della porta accanto.

Tsai stessa in un’intervista ha dichiarato che le politiche nazionaliste stanno erodendo la sovranità dell’isola: “Quando arrivano dei visitatori cinesi dobbiamo nascondere le nostre bandiere”.
D’altra parte i successi degli ultimi anni potrebbero dare un certo vantaggio al suo rivale. “La distensione ha rafforzato la posizione di Taiwan a livello globale”, ha controbattuto il presidente. Pechino ha interrotto la guerra contro i Paesi che riconoscono diplomaticamente l’indipendenza dell’isola, e ha ritratto la sua ostilità verso la partecipazione di Taipei ad alcune organizzazioni internazionali. “Taiwan non è più vista come una piantagrane, ma come una forza pacifica” ha continuato il leader del Guomindang.

E non solo. Ma ha dalla sua parte tanto la Repubblica popolare cinese che gli Stati Uniti, la prima timorosa che un cambio al vertice possa inasprire le relazioni con l’isola, preferisce sostenere l’attuale governo tutto sommato facilmente manipolabile; i secondi perché, legati a Taiwan da un’alleanza risalente al disgelo post Guerra Fredda, sarebbero costretti ad intervenire nel caso il deterioramento dei rapporti tra Pechino e Taipei sfociasse in un attacco armato.

Proprio all’inizio di gennaio Washington aveva annunciato visite ufficiali sull’isola e la possibilità di viaggi negli Usa senza bisogno di visto. Una mossa che gli addetti ai lavori hanno interpretato come un tentativo di tirare acqua al mulino di Ma Ying-jeou. E le smentite della diplomazia a stelle e strisce non sono state sufficienti a dissipare i sospetti: “Noi non interferiamo mai nelle elezioni negli altri Paesi, e Taiwan non fa eccezione” ha dichiarato Sheila Paskman, portavoce dell’Istituto americano di Taiwan.

Ma non è passa certo inosservata l’agitazione mostrata dalla Casa Bianca, che tra due fuochi, deve stare attenta da una parte a non irritare il Dragone, il suo rivale più insidioso sullo scacchiere internazionale, e dall’altra a mantenere gli accordi derivanti dall’alleanza con Taiwan, che alla luce del nuovo assetto geopolitico mondiale, risulta ormai quantomeno obsoleta.

Intanto sull’ex isola di Formosa tutti gli occhi sono già puntati al 14 gennaio, data in cui l’elettorato verrà chiamato alle urne. Rafforzare l’identità nazionale a discapito del quieto vivere con i cugini cinesi, o cedere ad un conveniente compromesso avvallato dai numerosi successi ottenuti in politica estera? Messi da parte i sondaggi, ora l’ultima parola spetta ai cittadini.

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