PECHINO (corrispondente) – Chen Guangcheng, noto dissidente cinese, è fuggito dalla sua casa-prigione nella quale si trovava agli arresti domiciliari dal 2010. L’uomo sarebbe scappato domenica scorsa dalla cittadina di Dongshigu, provincia dello Shandong, ma la notizia è stata resa nota soltanto nella notte tra giovedì e venerdì da alcuni attivisti politici.
Sulla sorte attuale di Chen nessuno ha certezze, ma secondo il corrispondente della BBC in Cina, Jo Floto, si troverebbe a Pechino presso una sede diplomatica; si vocifera si tratti di quella statunitense nonostante il no-comment dei funzionari americani.
Comunque sia, secondo quanto assicurato in una conversazione telefonica alla BBC da Bob Fu, presidente dell’Associazione China Aid, il dissidente in questo momento è in un posto sicuro al 100%, dove è stato condotto da He Peirong, un’altra attivista che si è lungamente battuta per la sua liberazione. “Posso soltanto dirvi che non si trova nell’ambasciata americana di Pechino e non è nemmeno nello Shandong” ha rivelato ad AP He.
Ma mentre Chen si trova in salvo, la sua famiglia è ancora sotto sorveglianza e avrebbe già ricevuto le minacce dalla polizia: il nipote, Chen Kegui, sarebbe stato anche picchiato, come rivelato da Yaxue Cao, una blogger entrata in contatto con alcuni parenti del dissidente.
Nella giornata di venerdì le forze dell’ordine hanno circondato l’abitazione del fratello dell’attivista, Chen Guanfu e del nipote. Il più giovane dei Chen “si è munito di una mannaia come arma di difesa. Ha accettato diverse persone ferendole” ha rivelato ad AP He Peirong. Al momento i due Chen si troverebbero agli arresti.
Il sito di citizen journalism Boxun.com ha pubblicato un video nel quale Chen rivolge un appello al premier Wen Jiabao, noto per essere la “voce buona del regime”.
Tre le richieste inoltrate al Partito: che le autorità centrali indaghino sui pestaggi subiti dai suoi familiari, che venga garantita la sicurezza della sua famiglia e l’assunzione di misure adeguate per debellare la corruzione serpeggiante tra i funzionari.
Il dissidente non ha esitato a fare i nomi di coloro che hanno torturato lui e la sua famiglia: Jia Yong e Zhang Shendong, tra i più assidui di casa Chen, ma compaiono anche Li Xianqing, capo dell’amministrazione della giustizia, e Zhang Jian, vice segretario addetto al controllo dell’ordine. Le violenze e i soprusi sarebbero stati attuati in nome del Partito, del quale i funzionari si sono spacciati per rappresentanti. Un’ingiustizia che – secondo quanto affermato da Chen nel suo messaggio- rischierebbe di screditare l’immagine del Partito stesso.
Chen Guangcheng, 40 anni, originario della provincia dello Shandong, sei anni fa ha sfidato il diktat del governo violando la legge del figlio unico. Il frutto del suo amore, una bambina “clandestina”, è stata privata di tutti i diritti civili; quanto a lui, ha scontato quattro anni e tre mesi di lavori forzati nei laogai (l’accusa ufficiale fu di danneggiamento di immobili e blocco del traffico mentre era a capo di una manifestazione), ma la sua odissea è continuata anche dopo il rilascio.
Sebbene cieco dalla nascita, Chen sembra vederci meglio di tanti altri e, una volta riassaporata la libertà nel settembre 2010, non ha rinunciato a portare avanti la sua battaglia. Sottoposto agli arresti domiciliari insieme alla moglie e alla figlia (il primogenito è stato strappato ai genitori e affidato ai nonni per ordine del giudice tutelare), la famiglia Chen era riuscita a gabbare i controlli governativi e a comunicare con il mondo esterno attraverso un “video-denuncia”, diffuso in seguito da China Aid.
La risposta del Partito non si è fatta attendere: lo scorso febbraio dieci funzionari locali, fatta irruzione nella residenza del dissidente, hanno pestato a sangue i due coniugi per due ore di seguito; la donna è svenuta a causa delle percosse subite. Ma non solo. La famiglia Chen è stata in seguito privata dei beni di prima necessità e dei medicinali di cui Guangcheng necessita a causa di alcuni disturbi cronici, mentre l’abitazione è stata trasformata in una prigione: sigillate le finestre, sequestrati oggetti tra i quali computer, televisione, il bastone per ciechi dell’uomo e i giocattoli della figlia. Un impianto di telecamere monitorizza ogni movimento all’interno della casa-prigione per scongiurare ogni pericolo di fuga; misure precauzionali, queste, che alla luce dei nuovi accadimenti sembrerebbero essersi rivelate insufficienti.
Chen, che nel 2005 aveva denunciato i metodi poco ortodossi per il controllo delle nascite adottati dalle autorità di Linyi – che vanno dalle percosse agli aborti coatti – ha messo in luce un bilancio agghiacciante: nella provincia dello Shandong, in un solo anno, sarebbero state imposte oltre 7mila sterilizzazioni forzate. Oggi, con un totale di 130mila denunce per aborti coatti, il nome del dissidente appare nella classifica dei “100 uomini che hanno dato forma al mondo”, stilata dal Times.
Lo scorso ottobre, entro i confini della Grande Muraglia la rete ha dimostrato la sua solidarietà nei confronti dell’attivista, pubblicando online oltre 210 fotoritratti in venti giorni, contraddistinti tutti dagli occhi coperti a simboleggiare quella menomazione fisica che non ha, tuttavia, impedito a Chen di vedere le ingiustizie che lacerano il suo Paese. “Supportiamo Guangcheng, aiutiamo Guangcheng” è il nome della campagna lanciata su internet diventata il leitmotiv dei microblog in salsa di soia, mentre il polverone mediatico si è spostato dal web alla carta stampata, innescando una querelle che ha visto quotidiani dalle inclinazione più liberali opporsi agli organi di stampa governativi (leggi: Oriental Morning Post VS Global Times).
Anche la comunità internazionale è in grande apprensione per la sorte dell’attivista. Al tam tam degli ultimi tempi, che ha dato vita a quello che viene chiamato sarcasticamente dai netizen ” turismo di avventura nello Shandong”, ha fatto seguito un’ulteriore stretta della polizia locale: diversi amici e giornalisti stranieri sono stati arrestati o hanno subito minacce per aver tentato di avvicinarsi all’abitazione del dissidente cinese, e chiunque cerchi di entrare nel villaggio di Linyi fa inesorabilmente ritorno a casa con una buona dose di lividi.
La voce del dissenso era arrivata al grande pubblico proprio grazie alla mediazione dell’Occidente: Women’s Right Without Frontiers, in collaborazione con il CNN e China Aid, aveva realizzato un video nel quale è lo stesso Chen Guangcheng ha rilasciare una breve, sebbene pungente, dichiarazione d’intenti: “La cosa che possiamo fare è dominare il terrore e denunciare la loro sfacciataggine che è disumana e priva di coscienza. Dobbiamo esporre ogni loro misfatto nascosto. Per la realizzazione di questo video sono perfettamente pronto, so che possono torturarmi come fecero con Gao Zhisheng (altro dissidente cinese) ma non ho paura”.
L’improvvisa fuga dell’attivista getta nuove ombre sul Regno di Mezzo, già finito sotto i riflettori della comunità internazionale a causa del recente scandalo nel quale sono invischiati l’ex segretario del Partito di Chongqing, Bo Xilai, e la sua famiglia.
Le voci di un colpo di Stato guidato dall’uomo dei servizi di sicurezza Zhou Yongkang -unico ad essersi opposto al siluramento di Bo- avevano già instillato diversi dubbi sulla solidità della leadership cinese. E il messaggio diretto da Chen a Wen Jiabao, capo dell’ala riformista, sembrerebbe confermare la possibilità di una “difficoltà di comunicazione” tra i vari ingranaggi della macchina politica cinese. Il dialogo tra il centro e la periferia si fa sempre più problematico, mentre la corruzione dei governi locali continua ad essere motivo di proteste e rivolte popolari.
Ora sorge spontanea una domanda: come ha fatto Chen Guangcheng a fuggire, dopo così tanto tempo, ad una sorveglianza tanto serrata? Forse, e il condizionale è d’obbligo, gli uomini di Pechino potrebbero non remare più tutti dalla stessa parte; nemmeno nelle pericolose acque del dissenso.